Uno di loro, Jihad Dhiab, arrivato in Uruguay nel dicembre del 2014 con lo status di rifugiato e in cattive condizioni di salute – l’uomo era stato uno dei promotori dello sciopero della fame indetto dai prigionieri del carcere americano a Cuba –durante una polemica conferenza stampa a Montevideo ha dichiarato che sarebbe stato preferibile rimanere a Guantánamo piuttosto che finire in Uruguay. Dhiab non è nuovo a dichiarazioni forti. Già a marzo aveva anticipato di “avere la sensazione di essere stato trasportato da un carcere all’altro”.
L’esasperazione dell’ex prigioniero si deve in realtà alla lontananza dalla famiglia, con cui chiede di potersi riunire. La moglie e quattro figli non li vede dal 2002, quando, senza ricevere spiegazioni, venne arrestato in Pakistan. L’accusa: il governo uruguayano gli avrebbe promesso il ricongiungimento familiare, rimangiandosi poi la parola.
Dei sei ex detenuti di Guantánamo accolti dall’Uruguay, Dhiab è stato l’unico a non aver accettato l’offerta – fatta dal governo uruguayano insieme all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) – che prevedeva aiuto economico per un anno (con opzione per un secondo) e una casa. Il rifiuto si deve al fatto che Dhiab ritiene l’Acnur un organismo legato agli Stati Uniti, paese che ormai considera un nemico personale (oltre che per la sua ingiusta detenzione, accusa gli USA di essere responsabili della morte del figlio, ucciso in Siria).
Nel frattempo gli altri cinque rifugiati (tre siriani, un tunisino e un palestinese) vogliono, passata qualche difficoltà iniziale, rimanere in Uruguay. “Si sono completamente inseriti, hanno una casa e conducono una vita normale. Stanno approfondendo lo studio della lingua per potersi incorporare al mondo del lavoro”, ha fatto sapere il loro avvocato, chiarendo che per ora nessuno ha conseguito un impiego. Tre di loro si sono già sposati con uruguayane convertite all’Islam. Uno, il tunisino Abdul Bin Mohammed, è prossimo a diventare padre.
Nei giorni scorsi 42 siriani – 5 famiglie – avevano invece manifestato, accampandosi in una piazza antistante il palazzo del Governo a Montevideo, il desiderio di tornare in Libano (dove, prima di viaggiare in Uruguay con un programma voluto dall’ex presidente José Mujica, vivevano in un campo profughi dell’ONU), lamentandosi soprattutto dell’alto costo della vita nel paese sudamericano. Il segretario di Diritti Umani della presidenza dell’Uruguay, Javier Miranda, ha risposto attraverso il giornale uruguayano El País di “comprendere ma non condividere il reclamo delle famiglie” visto che il denaro offerto è stato “calcolato per permettere loro vivere degnamente”.
La Segreteria per i Diritti Umani dell’Uruguay ha precisato che i profughi ricevono un sussidio diviso in due parti: una mensualità equivalente a circa 670 euro per famiglia per vestiti, trasporto e altri beni che vengono rimborsati dietro presentazione di fattura. E una seconda somma, questa fissa, che può variare da un minimo di 888 euro a una cifra superiore, in relazione al numero di componenti della famiglia, per un periodo di due anni. Sussidi di tutto rispetto dunque, che possono cumularsi ad altre entrate, come lo stipendio.
Intanto la britannica BBC ha pubblicato un articolo in cui elogia il paese sudamericano come “uno di quelli che più si è mobilitato per creare coscienza sulla terribile situazione che attraversa il popolo siriano”. L’emittente sottolinea lo sforzo notevole compiuto dall’Uruguay, soprattutto se comparato ad altri paesi europei. Viene citato ad esempio il Portogallo, che secondo Eurostat ha dato asilo a 15 siriani. L’Uruguay ne ha già accolti 44 – gli stessi che volevano andarsene erano stati ricevuti personalmente all’aeroporto da Mujica – e altri 76 dovrebbero arrivare entro la fine dell’anno.