NELLE MANI DEL CHAPO. Migranti sequestrati, torturati e uccisi. Una attività secondaria del Cartello di Sinaloa e del suo capo, recentemente arrestato

Sequenza dal film La vida precoz y breve de Sabina Rivas di Luis Mandoki
Sequenza dal film La vida precoz y breve de Sabina Rivas di Luis Mandoki

Era il febbraio del 2007 e circa 300 persone erano sparite da un paese che si chiama Altar. Tutti erano migranti – messicani e centroamericani – che si erano concentati nel paese di El Sonora, alla frontiera con l’Arizona, nell’attesa di incontrare un buco per poter passare negli Stati Uniti.

Il narcotrafficante, l’onnipotente narco, aveva sequestrato tutti i migranti che andavano da Altar verso i punti di frontiera. Altar si trova a 100 chilometri dalla frontiera, ma è il paese dove i migranti si riforniscono del necesario per affrontare il deserto inclemente, che puó essere tanto freddo da bruciare o tanto caldo da bruciare. Dopo essersi provvisti di berretti, giubbe, guanti e cappelli, coloro che cercheranno di vincere il deserto percorrono 100 chilometri di strade sterrate tra Altar e il campo El Sásabe, per poi spostarsi lungo la linea della frontiera e scegliere il punto attraverso cui passare. Punti con nomi insulsi, come il palo verde, il carro bruciato, la collinetta.

In questa striscia di terra, controllata dai falchi narcos, i migranti furono fatti scendere dai furgoni che li portavano fino a El Sásabe. Erano stati fermati 15 furgoni e tutti – autisti, “coyotes” (trafficanti di persone) e migranti – erano stati fatti scendere e trasferiti a una fattoria nelle vicinanze. E li, nella fattoria, molti erano stati torturati. Ad alcuni dei migranti avevano rotto le caviglie, una lezione molto crudele per chi ha l’intenzione di camminare in un deserto.

Io ero ad Altar quando si realizzó il sequestro. Quando chiesi ai tassisti e agli autisti dei furgoni il perchè di tanto accanimento, il perchè di un sequestro per cui non si chiede un riscatto, la loro risposta fu semplice e unanime: i narcos avevano intenzione di far partire i burreros (corrieri) e non volevano migranti che si aggirassero lí intorno perchè avrebbero trasformato il territorio in una zona calda.

I burreros sono uomini – adolescenti, in maggioranza – che lavorano come ‘mule’ dei narcos. Si caricano 20 chilogrammi di marihuana sulle spalle e si lanciano al deserto, con la guida di un coyote e con un uomo di fiducia del capo locale. Camminano due notti nel deserto dell’Arizona, fino ad arrivare alla loro base statunitense, nella riserva degli indiani Tohono, un territorio autonomo dentro gli Stati Uniti. Da lí, la droga è introdotta in furgoni che avanzeranno su strada fino alle cittá che sono punti di distribuzione. Quando i narcos stanno per far passare un buon carico di marihuana, non vogliono migranti che si aggirino per il deserto. I migranti destano l’attenzione delle Pattuglie di Frontiera e questo causerebbe gravi perdite ai narcos. E ai narcos non piace perdere. Per questo vogliono il deserto tutto per loro. Per questo, in quel febbraio terribile, sequestrarono circa 300 migranti.

L’espressione ‘narco’ ormai si usa per designare chiunque: uno che all’angolo della strada vende piccole dosi di cocaina, un camionista che trasporta due chili di polvere tra i cerchioni, un giovane di Sinaloa che stagionalmente raccoglie pomodori nel suo Stato e poi va a lavorare come corriere ad Altar. Ma qui il narco aveva nome e cognome. Questa azienda che tante volte dissimuliamo dietro a queste cinque onnipresenti lettere – N-A-R-C-O – ad Altar si chiama Cártel di Sinaloa, e uno dei suoi alti dirigenti si chiama Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, soprannominato El Chapo, ed è appena stato catturato in Messico. Nel febbraio del 2007 la sua azienda ha sequestrato 300 migranti. Nel febbraio del 2007, la sua azienda ha sequestrato 300 migranti e solo di 180 si è saputo che sono stati liberati, grazie a che il parroco del paese, Prisciliano Peraza, ha avuto il coraggio di presentarsi e chiedere la loro liberazione. Gli dettero i più malandati. Nel febbraio del 2007, la sua azienda si è tenuta 120 migranti e mai piú abbiamo saputo di loro. Nel febbraio del 2007, molto probabilmente, la sua azienda ha massacrato 120 persone.

Ho interrogato uno degli autisti dei furgoni che erano stati liberati nella fattoria perchè  tornassero indietro con il messaggio che nessun autista poteva trasportare migranti fino a nuovo avviso. Ecco quel che mi ha detto:

—Se io racconto qualcosa e loro lo vengono a sapere, domani mi fanno fuori, non sopravvivo neanche un giorno. E lo verrebbero a sapere. Qui tutti sono comprati.

Ho interrogato un migrante salvadoregno che, per mancanza dei soldi sufficienti per pagare il trasporto, aveva mandato per prima sua sorella. Lei è caduta nel sequestro. Gli ho parlato ad Altar, il giorno del sequestro, quando la mandibola gli tremava ancora, forse per paura o forse per rabbia. Ecco quel che mi ha detto:

—Io ho giá parlato con i trafficanti di immigrati che sono tornati, e con alcuni proprietari dei furgoni che sono andati a vedere se era rimasto qualcosa nei loro veicoli che erano stati bruciati. Mi hanno confermato che mia sorella si trovava lì. Io non posso andare a presentare una denuncia, non posso fare niente, perchè mi ucciderebbero, dato che qui tutto è pura mafia. Io voglio solo tornare a casa mia, ma non ho soldi per il biglietto.

Ho parlato con una delle persone che disponeva di maggiori informazioni nel paese, uno che per sicurezza ho chiamato “il signor A” quando ho scritto la cronaca dei fatti. Ecco quel che mi ha detto:

—Tutti sappiamo che questo succede, li sequestrano, violano le donne che migrano, e picchiano forte i migranti, i trafficanti di persone e gli autisti dei furgoni, ma cosa ci possiamo fare? Qui abbiamo solo otto poliziotti, e i narcos hanno circa 50 uomini ben armati e molte autorità comprate.

Sono venuto via da Altar su consiglio dei miei contatti e sono poi ritornato in aprile, un mese e mezzo dopo il sequestro. Ho intervistato il parroco Peraza. Ecco quel che mi ha detto:

— Li tenevano lì seduti, in una fattoria vicina a El Sàsabe, ma hanno voluto darmene solo 180, i più malconci, quelli a cui avevano rotto le caviglie o che avevano la testa spaccata per le mazzate ricevute. Al resto dei 300 non so cosa è successo, non so se li hanno lasciati andare.

Quelli che sono stati liberati, si sono dileguati. Sono tornati al loro paese, se ne sono andati con il “coyote” che avevano contrattato, per cercare di passare la frontiera in un’altra zona, si sono consegnati alla polizia migratoria. Ciascuno ha fatto qualcosa, meno che denunciare il sequestro. Considerando le testimonianze citate, sarebbe assurdo chiedersi perchè non hanno sporto denncia. Gli altri, quei 120 che sono rimasti nella fattoria del Cártel di Sinaloa, non è difficile immaginarseli come ossa sporche di terra che, nella migliore delle ipotesi, un giorno saranno ritrovate.

Nei tre anni successivi non ho mai smesso di andare ad Altar. Sono tornato in cinque occasioni, e ho potuto venire a conoscenza di ulteriori dettagli. Il Cártel di Sinaloa, capeggiato nella zona da un uomo conosciuto come Il Falco o Lo Sparviero, esigeva ai migranti la somma di 700 pesos (circa 50 dollari) per lasciarli salire sul furgone che li portava a El Sásabe. Ad Altar lavoravano circa 30 furgoni, e ciascuno di essi realizzava due viaggi al giorno fino alla zona di frontiera. In ogni furgone venivano stipati 20 migranti. Questo vuol dire che, per ogni viaggio, l’azienda di El Chapo Guzmán incassava circa 1.000 dollari. Questo vuol dire che ogni furgone, con i suoi viaggi, gli procurava circa 2.000 dollari al giorno. Questo vuol dire che i migranti che usavano Altar come itinerario – che sicuramente continuano ad usare Altar – costituivano, in un solo giorno, un’entrata di circa 60.000 dollari per l’azienda di El Chapo Guzmán. O, per gli scettici, e calcolando solo un viaggio al giorno per furgone, l’azienda del capo si portava a casa almeno 30.000 dollari giornalieri solo in questo paesino di frontiera di circa 8.000 abitanti.

La quota la riscuotevano le ‘mascherine’, uomini con passamontagna che si avvicinavano in piena luce del giorno a dare il permesso ad ogni furgone che si preparava a partire. Davanti alla chiesa, nella piazza principale del paese, le mascherine contavano i migranti, che non fossero piú di 20, riscuotevano il pagamento e consegnavano all’autista del furgone un foglietto con una parola d’ordine, da usare nel caso in cui fossero stati fermati nella striscia di terra prima della frontiera da uno dei sorveglianti della mafia.

Se, grazie a tutto il sistema di corruzione governativa che il Cártel di Sinaloa è riuscito a pagare, si possono trafficare droghe con una certa tranquillità nelle zone di frontiera da loro controllate, quando si tratta di migranti il delitto si commette in pubblico, senza nessuna dissimulazione, senza strategie e senza nessun pudore.

Si potrebbe dire che quelle migliaia di dollari riscossi ad Altar sono una miseria per un’azienda guidata da un uomo la cui fortuna, secondo le stime, è superiore al miliardo di dollari. Ma, d’altra parte, questo stillicidio di dollari dei migranti non avveniva solo ad Altar, non era una particolaritá dei mafiosi del posto. Era – è – una voce di bilancio criminale del Cártel di Sinaloa. Succedeva lo stesso a Mexicali, ad Algodones, a Nogales, a Sonoíta, a Naco, ad Agua Prieta… Non dico che solo in questi luoghi il Cártel di Sinaloa riscuote una quota, dico che in questi mi consta che la riscuote, perchè  li ho visitati.

Quando si parla di migranti centroamericani attraverso il Messico, quando si parla di sequestri, di assassinii, di fosse comuni clandestine, della strage di 72 migranti a Tamaulipas, di traffico di donne finalizzato allo sfruttamento sessuale in ripugnanti bordelli di Reynosa, il nome della mafia che si ascolta è quello di Los Zetas. Questa mafia cavernicola che squarta e sequestra in massa sotto il sole del mezzogiorno e in pieno centro delle città eclissa le altre mafie specializzate nel settore di rovinare la vita agli indocumentati che attraversano il Messico.

Ciò nonostante, e se serve a qualcosa dirlo tra tante notizie e rivelazioni, tra tanti tuits e post, tra tanti dubbi e tante fotografie, il mafioso che recentemente è stato catturato in Messico era il leader di una mafia che giorno a giorno rovinava la vita a migliaia di indocumentati. Una mafia che nel febbraio del 2007 ha fatto sparire 120 migranti messicani e centroamericani, una mafia che esige 50 dollari per viaggio a chi se ne è andato di casa in cerca di soldi. Una mafia che, per poter fare tutto ciò a questi viaggiatori, ha bisogno che un gran numero di autorità municipali e statali facciano finta di niente.Quest’uomo che hanno catturato dovrebbe dire qualcosa in proposito, anche se per ora sembra che nessuno abbia intenzione di chiederglielo.

I migranti, come suole succedere, sono gli ultimi a contare qualcosa.

*L’autore è stato coordinatore del progetto Sulla strada (Nel cammino), di copertura migratoria in Messico, e autore del libro “I migranti che non contano” 

Traduzione dallo spagnolo di Francesca Casaliggi

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