In Brasile si muore per la terra, per avere quella che spetta di diritto o per difendere la terra su cui si vive. Sabato scorso è toccato a Semiao Vilhalva, uno dei leader dei nativi brasiliani Guarani-Kaiowà, ucciso da alcuni uomini armati durante un attacco alla comunità Nanderu Marangatu, nella città di Joao Antonio nello stato brasiliano di Mato Grosso do Sul, al confine con il Paraguay. La sua comunità aveva rioccupato parte della terra ancestrale e aveva denunciato il pericolo di uccisioni.
L’omicidio – secondo l’agenzia International Survivor, votata alla causa dei diritti dei popoli nativi – è avvenuto durante un accerchiamento del villaggio da parte di uomini armati inviati dai proprietari terrieri delle piantagioni di canna da zucchero, che occupano quasi tutto il territorio dello stato, come risposta a un tentativo di occupazione da parte della comunità dei nativi che le considerano la loro terra originaria.
La piantagione dove vive la comunità nativa appartiene a Roseli Silva, un imprenditore che è stato accusato dai nativi di aver ordinato l’attacco con l’appoggio di politici locali. Lo stato di Mato Grosso Do Sul è noto per i conflitti tra comunità native e proprietari terrieri: è lo stato con il più alto tasso di omicidi di nativi americani. Un rapporto realizzato da Missionary Indigenous Council registra 754 omicidi tra il 2003 e il 2013, 487 dei quali avvenuti nel Mato Grosso do Sul.
Solo nei primi sei mesi del 2015 almeno 24 sono stati gli omicidi commessi in Brasile per conflitti legati alla terra, secondo quanto rivela il Centro di Documentazione della Pastorale Commissione della Terra (CPT) guidata da mons. Tòmas Baldwin. Nello stesso periodo del 2014 le vittime furono 20, un numero che è già stato superato.
L’assassinio di Simao Vilhalva avvenuto sabato non è il primo a colpire un leader dei Guaranì; negli ultimi dieci anni 16 esponenti di comunità native sono stati uccisi; a giugno è stato incendiato un villaggio della comunità Kurusu Mba.
Dal 1993 i nativi Guaranì hanno chiesto al governo la restituzione della loro terra originaria. Nonostante le promesse del governo, le più grandi aziende nel Mato Grosso do Sul occupano 2,4 milioni di ettari, mentre le comunità native hanno a disposizione 77mila ettari di riserve, dove ci sono insediamenti sovraffollati e con condizioni igienico-sanitarie precarie. La “Ruralista” – la lobby dei proprietari terrieri – ha però sempre impedito il ritorno delle comunità nelle proprie terre originarie, spesso sfruttando i nativi come mano d’opera con il benestare delle autorità statali.
Lo scorso mese le Nazioni Unite hanno fatto un richiamo ufficiale al Brasile per le condizioni in cui versano le comunità Guaranì. Dal 2000 al 2013 ci sono stati anche 662 suicidi nelle comunità native, la maggior parte nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni, e la scarsa assistenza sanitaria ha contribuito alla morte di più di 14 mila persone negli ultimi cinque anni. La regione detiene anche il primato nazionale per la malnutrizione dei bambini.