QUESTA É FRONTIERA. Viaggio in un pezzo di terra di nessuno, nella foresta amazzonica del Perù al confine con la Colombia. Disboscamento illegale, pesca abusiva e traffico di uomini

Vista del fiume Putumayo, limite naturale tra Perù e Colombia (Foto Martina Conchione-CAAAP)
Vista del fiume Putumayo, limite naturale tra Perù e Colombia (Foto Martina Conchione-CAAAP)

El Estrecho è una piccola località di confine della foresta amazzonica peruviana che concentra il peggio della negligenza dello Stato. A El Estrecho una donna ai bordi dell’agonia viaggia su un motofurgone perché l’unica ambulanza della zona non è operativa. In El Estrecho puoi vedere uomini storditi giorni e giorni dall’alcol che circola in abbondanza. E un pomeriggio può arrivare qualcuno che ti mette tra le mani un opuscolo che porta la firma di presunti dissidenti di un gruppo di guerriglieri.

A El Estrecho, bambini e adolescenti, discendenti delle decine di comunità native che si trovano in questo luogo dimenticato che è la provincia di Putumayo, al confine con la Colombia, vanno a scuola con la speranza di avere un futuro migliore, con condizioni egualitarie.

Lo Stato è presente con alcuni programmi sociali mal gestiti, e la cui messa a punto, come spesso succede, denota una chiara impostazione centralista; nel frattempo cresce il danno provocato da attività come l’estrazione illegale, il disboscamento abusivo e la pesca indiscriminata. E crescono anche la violenza domestica e il traffico di persone.

El Estrecho è terra di nessuno.

E lì siamo andati, a San José del Estrecho, nome completo della capitale di Putumayo, per appoggiare il lavoro del Vicariato Apostolico di San José del Amazonas, che la prima settimana di maggio ha realizzato un workshop sui diritti umani e sulla situazione della Pan amazzonia. I partecipanti provenivano da varie parti del Basso e Medio Putumayo, il fiume che fa da confine naturale e che dà il nome alla provincia.

Studenti indigeni di quinta superiore, caciques maijunas, madri dei popoli Murui, Bora e Kichwa, rappresentanti dei popoli Ticuna, Yagua, Secoya e Ocaina; ed anche rappresentanti del FECONAFROPU, ossia la Federazione Indigena delle Comunità Native di Frontiera del Putumayo.

Il disconoscimento dei loro diritti è un denominatore comune. Solo pochi che occupano o occuparono posizioni dirigenziali sanno di cosa si sta parlando. Nelle comunità native quest’ignoranza si manifesta più crudamente.

Quando arriva il momento, le prime ad intervenire sono le madri che denunciano i maltrattamenti dello Stato. Registrare i figli appena nati può significare dover ingaggiare una vera battaglia. Il funzionario ti può dire in faccia che non registrerà tuo figlio perché gli vuoi mettere un nome indigeno. Gli ci sono voluti due secondi per violare i suoi diritti all’identità culturale e ad avere un nome.

La violenza strutturale esiste e anche se per molte donne e uomini è un termine nuovo, nel Putumayo si esprime in mille forme, specialmente verso le popolazioni indigene che si battono contro l’indifferenza dello Stato e una serie di fattori che mettono alla prova la loro identità e le loro radici nel territorio.

Come in una zona di frontiera, la vita quotidiana non la si capisce senza interazione con il villaggio vicino, che si sviluppa in molteplici modi e quasi sempre con un bilancio negativo per le comunità native, in costante convulsione per la presenza di militari stranieri, la crescita di attività illegali e di gruppi religiosi con interessi ben lontani dalla fede.

La pesca è diventata più difficile nel Putumayo, l’uso indiscriminato del barbasco, un’esca vegetale velenosa, per catturare i pesciolini della preziosa arahuana, il pesce carnivoro che popola le acque del Rio Amazonas, rende il fiume un luogo di morte per il resto delle specie. È un metodo usato principalmente da stranieri, che non considerano molto utili i metodi tradizionali che prevedono l’uso di reti e lance, alla maniera dei popoli indigeni.

L’educazione, come nella maggior parte dell’Amazzonia peruviana, non porta da nessuna parte. Gli insegnanti nelle comunità, in quelle che hanno il lusso di averne uno, si assentano per diversi giorni attratti dal luccichio della città. In El Estrecho abbondano i bar e locali notturni che, senza nessuno che li controlli, permettono l’ingresso di minori.

E ogni giorno quel luccichio può finire nel sangue, nella violenza incoraggiata dall’alto consumo di alcol e droghe.

La violenza strutturale nel Putumayo si manifesta in quella burocrazia che assalta e tratta con disprezzo, che non ti riconosce nessun diritto. Mancano i vaccini, ma mancano anche le opportunità. Non ci sono progetti produttivi, non c’è mercato interno, non c’è lavoro.

Nonostante la barbarie dei vecchi caucheros (estrattori della gomma di caucciù, N.d.T.) e le infinite avversità, nel Putumayo le culture sono ancora vive. È ammirevole ascoltare Rosiño Guidone de Enocaisa, anziana murui di circa 95 anni, che sebbene cieca e un poco sorda, è in grado di esprimere ciò che sente su quello che ha dovuto vivere. Le sue tradizioni sono ancora intatte, parla molto bene la sua lingua e il castigliano, ricorda la casabè (un alimento a base di yuca, di origine precolombiana, N.d.T.) e sebbene non la prepari più a causa della sua età avanzata, ricorda il suo inconfondibile sapore. Vedendola mi chiedo se questa parte del mondo sia davvero la terra di nessuno. Penso di no, penso che quest’area appartenga alle persone che l’hanno sempre abitata e che hanno diritti riconosciuti all’interno e all’esterno del paese; diritti che, tuttavia, i vari governi hanno sempre negato.

Il percorso che dobbiamo tracciare partendo dalla conoscenza di questi diritti, è importante che inizi da qui. Ikuri Buinaño Buinajima, nonna della comunità nativa di “Huitoto 8 dicembre”, ricorda episodi della violenza cauchera. Con un solo paniere e mezzo chilo di farina, la sua famiglia doveva sopravvivere circa un mese lavorando sulla montagna, in balia del tempo. L’ingegno di sua madre, che raccolse la chambira (una pianta medicinale tipica dell’Amazzonia, N.d.T.) per sfilarla finemente e poter cucire le coperte con le quali si coprivano di notte, ha reso meno difficile il suo calvario.

I momenti che ricorda come felici avvennero quando è arrivata allo yucal. Ero immensamente felice quando sono arrivato allo Yucal e mi sono goduta le delizie che mia madre aveva preparato, mi racconta.

Oggi Ikuri sogna che i suoi figli e nipoti si facciano un futuro molto diverso. In El Estrecho c’è un futuro, c’è la cultura, ci sono nuove generazioni che possono prendere il testimone e condurre la loro gente ad affrontare uno Stato sfuggente e ingiusto, so che è possibile, semplicemente manca la volontà.

* Avvocato del Centro Amazzonico di Antropologia e Applicazione Pratica (CAAAP).

Repam

Traduzione dallo spagnolo di Silvia Pizio

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