LA VITA ASSEDIATA DI JOSÉ E MARIA NEL VENEZUELA POST-ELETTORALE. Il miracolo di sopravvivere giorno dopo giorno in una valle di lacrime

Il giorno dopo. Quotidianità esemplare di una famiglia media
Il giorno dopo. Quotidianità esemplare di una famiglia media

Chiunque arrivi nel nostro Paese e lo guardi con occhi esterni si chiede: ma come sopravvivono le persone? La situazione è così caotica che la domanda è più che giustificata. Sopravvivere in questa valle di lacrime chiamata Venezuela è un miracolo. Non ci sono le condizioni oggettive per una prodezza del genere. Il venezuelano si alza ogni giorno e da solo deve gettare le basi per creare le condizioni minime che gli assicurino un altro giorno. Vive alla giornata, non c’è un altro modo di farlo. L’incertezza non è solo esistenziale, politica, economica, sociale, è, soprattutto, biologica: la vita o la morte.

La crisi ha spezzato la routine minima della vita di tutti i giorni. Nei quartieri della capitale, in tutti, il giorno può trascorrere così: José si alza, va in bagno e non c’è acqua; si può restare senz’acqua anche venti giorni. Fa i suoi bisogni fisiologici e non c’è carta; o perché non si trova o perché è molto costosa e non può comprarla. Se è fortunato con l’acqua, deve dosare il sapone con molta attenzione, al punto che, per i costi, conserva i resti minuscoli di sapone per poi metterli insieme e fare nuovi saponi. Qualcosa di simile accade con il dentifricio, quando finisce rompe il tubetto per estrarre il minimo resto di pasta rimasta attaccata alle pareti. Se ha intenzione di radersi, lo fa a secco perché la spuma è un lusso. Si prende cura del rasoio “usa e getta” per prolungarne al massimo la vita utile. Esce dal bagno e va in cucina, a volte non può fare colazione e può anche darsi che José e la moglie abbiano deciso di sopprimerla per l’insostenibile e scandalosa iperinflazione; a seconda di come si sviluppa l’iperinflazione regolano anche i ritmi dei pasti fino a restare con uno solo al giorno, o anche meno per dare la priorità ai loro figli. Letteralmente è un togliersi il pane dalla bocca perché i figli possano mangiare.

José lavora in un negozio dall’altra parte della città e per l’anzianità di lavoro che ha accumulato guadagna più di un salario minimo. In assenza di un sistema di trasporto pubblico che funzioni con regolarità, per arrivare al lavoro in orario esce di casa alle 5 del mattino. La flotta di trasporti pubblici è diminuita o perché non ci sono pezzi di ricambio o perché i proprietari non hanno i soldi per sostituire e riparare i veicoli danneggiati. Mentre tutto questo succede il governo parla di guerra economica e sabotaggio da parte dei conducenti. José, intanto, deve percorrere 3 km a piedi fino a raggiungere la fermata delle camionette. Non lo fa da solo, diversi vicini si sono uniti per aiutarsi l’un l’altro e difendersi dalla delinquenza che, data la mancanza di protezione e impunità da parte dello Stato, ruba i telefoni cellulari e, a volte, anche i recipienti con il pranzo. Una volta arrivato alla fermata deve attendere tra i 30 minuti e le 2 ore per salire sulla camionetta che lo porterà alla metropolitana. A causa della riduzione dei mezzi di trasporto dovuta alla rottura dei veicoli, hanno iniziato a comparire camion che effettuano il servizio di trasporto pubblico. Le immagini sono drammatiche, le persone viaggiano alla stregua delle merci e i costi del trasporto sono altissimi.

María, la moglie di José, fa la domestica. Era responsabile della stiratura a domicilio nelle case di alcune famiglie nella parte orientale di Caracas. Non lavora più tutti i giorni come prima, e questo per due motivi: il primo perché le quattro famiglie dove lavorava hanno lasciato il paese e così ha perso la sua fonte di lavoro. Adesso fa servizio nel quartiere, ma la paga non è la stessa, a volte stira per un piatto di cibo che mette in un pentolino e porta a casa per condividerlo con la sua famiglia. Il secondo motivo è che per la crisi del trasporto urbano e la mancanza di soldi, deve restare praticamente relegata nel suo settore. Di recente tutti i familiari di José e Maria si sono riuniti per cercare di organizzarsi perché in assenza di denaro e con l’iperinflazione galoppante, le loro finanze non bastano per coprire le spese dei trasporti di tutti. Adesso i bambini che prima andavano a scuola con il trasporto privato ci vanno a piedi. Per arrivarci devono camminare 3 km circa, e lo fanno soprattutto perché la scuola ha una mensa e possono mangiare, altrimenti abbandonerebbero la scuola. María e José non hanno modo di sostenere la casa, quello che guadagnano tutte due non è sufficiente nemmeno per assicurare mezzo pasto; i figli, come tutti i bambini, giocano a calcio ma María e José non hanno il modo di comprargli neppure un paio di scarpe di scarsa qualità perché costano più di dieci salari minimi.

A questo punto anche il ritorno a casa dopo la giornata lavorativa è un’altra odissea. Una vera disperazione. In un punto del sobborgo, come tutti, devono fare la coda per il trasporto pubblico, mentre dei controllori (persone non in uniforme che fanno da intermediari tra l’autista e il passeggero), organizzano discrezionalmente l’accesso alle unità di trasporto e impongono, secondo i loro criteri, il costo del biglietto. I costi dei biglietti, imposti da questi irregolari, sono insostenibili per una economia familiare. José si è organizzato con altri vicini per incontrarsi ad un’ora prestabilita e fare a piedi, tre volte alla settimana, dal sobborgo fino alla punta della collina dove vive. Arriva a casa esausto, a stomaco vuoto, pregando che ci sia corrente elettrica e non trovare la strada e la casa nell’oscurità. Quest’anno i blackout sono stati il nostro pane quotidiano in tutto il paese. Molte delle proteste hanno avuto come motivo l’elettricità, l’acqua e la salute. María, la moglie di José, lo aspetta e gli serve un’arepa (un piccolo pane di forma circolare preparato con farina di mais bianco, N.d.T.). Gli dice che la vicina, con un figlio in Cile, ha ricevuto la prima rimessa di denaro e con questa è stata in grado di comprare della farina; per celebrare la buona notizia, come ringraziamento e per solidarietà ha dato loro un paio di arepas. Parlano per un po’ tra loro. María gli dice che oggi è uscita per andare a comprare la borsa di cibo CLAP (la sigla significa Comités Locales de Abastecimiento y Producción. Si tratta di centri di distribuzione creati dal governo per stabilizzare i prezzi dei prodotti, N.d.T.) e ha passato 4 ore ad aspettare, ma è tornata senza niente; alla fine non gliele hanno vendute perché dicevano che erano arrivate incomplete e la gente ha protestato per l’abuso; forse domani gliele venderanno.

María dice a José che suo fratello Juan lascia il paese la settimana prossima perché non è riuscito ad ottenere il medicamento per il figlio che soffre di convulsioni. José diventa irrequieto e pensa: “Molti dei miei compagni di lavoro si sono dimessi questa settimana perché se ne vogliono andare. Ci sto pensando anch’io. I farmaci di mia mamma non si trovano e questa non è vita, ma non è facile ricominciare da capo”. Ed è così: i più minacciati e vulnerabili in questa situazione sono i malati cronici, in particolare i bambini, gli anziani e i malati psichiatrici, che nel bel mezzo di questa situazione sono stati costretti a scendere nelle strade gridando lo slogan “noi non vogliamo morire”. Di recente le madri dei bambini affetti da cancro si sono mobilitate con i loro figli per chiedere un trattamento dignitoso e rispettoso per la loro vita; loro, che dovrebbero essere protetti dalle istituzioni pubbliche. Le famiglie, intanto, emigrano con l’aiuto delle rimesse, per poter accedere ai farmaci e sostenere il trattamento. Intanto il governo continua a respingere gli aiuti umanitari affermando che in Venezuela le persone vivono nel migliore dei mondi.

*Organo della Fondazione Centro Gumilla del Venezuela

Traduzione dallo spagnolo di Elisabetta Fauda

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