VITA E MORTE DI UN SICARIO NEL PAESE PIÚ OMICIDA DEL MONDO. E del giornalista che ancora la può raccontare…

Mareros (Fotografie AP, Getty Images)
Mareros (Fotografie AP, Getty Images)

“In un quartiere povero alla periferia di Atiquizaya, agli inizi del 2010, un ragazzo di 27 anni fuma la sua quinta piastrella di crack (…). Il ragazzo aspira una boccata grande. All’improvviso, ascolta lo stridere della porta che si apre. Trattiene il fumo, sente lo scatto di una pistola. Il ragazzo stringe cinque dita sulla calibro 40 che ha su una coscia e cinque dita sulla calibro 357 che ha sull’altra”.

Il protagonista di questa scena che succede in El Salvador, si chiama Miguel Angel Tobar e nel novembre del 2014 è stato ucciso da sicari. Più conosciuto come il Bambino di Hollywood, è stato un brutale assassino della famosa Mara Salvatrucha (MS-13) fino a quando ha tradito i suoi compagni di banda per salvarsi con la sua famiglia in qualità di testimone protetto della polizia. È stato in quel momento che il giornalista e scrittore Oscar Martinez lo ha contattato per intervistarlo. A quel punto, entrambi sapevano che aveva i giorni contati.

Martinez —reporter di El Faro.net (una specie di Ciper – un centro cileno di ricerca e informazione giornalistica – di El Salvador) —ha seguito le sue tracce per tre anni e ha cucinato a fuoco lento la storia che sapeva che Miguel Angel non avrebbe mai letto. Ha pubblicato alcuni articoli sul personaggio in El Faro, poi ne ha tracciato un lungo profilo che è apparso in Los malos (I cattivi – Edizioni UDP) e ora, in agosto, con il titolo El Niño de Hollywood (Il Bambino di Hollywood), la storia sarà data alle stampe da Penguin Random House in America Centrale, Messico e Stati Uniti. La vita del bandito permette di capire la complessità e la violenza spietata del paese più omicida del mondo. Quello in cui vive Martinez e dove nel 2017 sono morte 103 persone ogni 100 mila abitanti.

—Le bande bisogna capirle per poter eliminarle —segnala Martinez, che è venuto a dare conferenze a Santiago. Si sistema gli occhiali in un hotel del quartiere Providencia. In un paio d’ore analizzerà in dettaglio la violenza che ha visto sopportare ai migranti che per sopravvivere all’orrore attraversano strade dove si è diluita la differenza tra poliziotto e mafioso. E in cui la corruzione può provenire da sindaci, governatori, sicari, trafficanti di persone, segretari e presidenti che si muovono con la perfezione di un orologio svizzero.

—Com’è conversare con qualcuno che sai che sarà ucciso?

—Io non so se sono una buona persona, ma almeno cerco di essere un buon giornalista. E in questo senso credo che l’unica cosa che un testimone di questo livello richiede da te è l’onestà. Miguel Angel voleva sapere perché era importante per me osservare la sua vita fino a quando lo avrebbero ucciso. E io gli ho risposto che la sua vita era finita, ma non così la sua storia. “E’ l’unica cosa che vedo che si può salvare di te”, ho detto a uno che aveva utilizzato la metà della sua esistenza per troncare altre vite.

—Cosa ti interessava sapere di un sicario?

—La storia di Miguel Angel non è la storia di un sicario. Quello che mi ha interessato del Bambino di Hollywood è stato capire come la società salvadoregna ha prodotto un uomo così: capace di sopravvivere a tante vicende in questo mondo e soffrire e uccidere senza che il suo lobo frontale entri in tilt – dice riferendosi ai più di 35 incontri che ha avuto con il bandito mentre fuggiva come un proscritto, in baracche di fango o in alberghi di passaggio.

Martinez dice che El Salvador è infettato dalle bande e che la violenza si compone di molti altri Miguel Angel sparsi nella zona più omicida del pianeta Terra. Dichiara inoltre che si destreggia per mantenersi vivo: non solo è stato picchiato e ha dovuto farsi scortare dopo le interviste, ha anche ricevuto minacce dirette dagli Zetas in Messico e ha dovuto scappare due volte in aereo dalla zona di conflitto.

A casa sua ci sono bottoni antipanico, allarmi e armi. E ogni volta che un testimone acconsente a parlargli, cerca di allearsi con organizzazioni di diritti umani perché gli diano protezione. La maggior parte di loro non la accetta. E così ogni tanto squilla il telefono per avvisarlo che la tal persona di cui ha preso nota con il suo registratore è stata assassinata.

—Non hanno mai sparato a noi, dice come se ingerire un sorso della birra che sta bevendo a Santiago lo calmasse.

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Se Miguel Angel è entrato nella Mara Salvatrucha a 12 anni, Martinez ha visto i primi cadaveri della sua vita quando ne aveva sei. Figlio di un’assistente sociale che era sopravvissuta alla guerra civile e lo portava ai campi dei guerriglieri, è stato nel campo di San José de Las Flores che ha preso coscienza di essere nato nell’orrore. Lì ha visto come gli elicotteri sparavano lasciando una fila di corpi al loro passaggio. Ai piedi del muro di una Chiesa, la gente piangeva cercando di riconoscere i propri cari, mentre sua madre lo cercava disperatamente pensando che anche lui fosse morto.

Martinez è cresciuto nella marginalità, come il 70% della popolazione salvadoregna, e così come il resto della gente vive sotto la minaccia delle bande disseminate nel 90% dei municipi del suo paese. Martinez dice che la tentazione è grande. Che conoscendo il contesto in cui molti dei suoi testimoni sono nati e cresciuti, non sarebbe stato irragionevole che diventasse come loro.

—È difficile resistere?

—Molto difficile. Le bande ti prendono in un’età in cui nessuno vuole essere lo stupido del gruppo, in cui tutti vogliono essere popolari e avere ragazze. Ti rendono potente, ti dicono che la violenza è un valore, e questo vuol dire che a 13 anni sei capace di far chinare la testa a uomini che potrebbero essere i tuoi nonni, e allora ricevi felicitazioni da parte di banditi con nomi misteriosi, che hai ascoltato e ammirato per tutta la vita. Gli adolescenti sentono che le bande danno un senso alla loro vita. Per tutta la vita han detto loro che sono uno schifo, che sono indolenti, che sono poveri; invece all’interno delle bande si sentono parte di qualcosa di fondamentale. È terribile. Credono di far parte di una guerra trascendente, quando in realtà è una guerra contro altri giovani in cui si possono rispecchiare, contro membri di altre bande che sono uguali a loro. La banda è, in essenza, la dimostrazione che quello che offre loro lo Stato è spaventoso.

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Quello che lo muove è l’indignazione. Questo lo ha portato a mettere a rischio la pelle ogni volta che scrive sui migranti insieme ai quali è fuggito sui tetti dei treni per 13 ore, in viaggi in cui addormentarsi può voler dire la morte per assalto o perché una caduta ti può costare la testa. Questa vertigine è dentro il DNA della società salvadoregna. Martinez dice che non conosce la calma. E che l’unica forma per rilassarsi è praticare il kickboxing. Così si sfoga.

—Hai avuto voglia di uccidere qualcuno?

—Molte volte ho sentito un livello di ira che mi soverchiava. Qualche volta l’ho detto per scherzo: se io lasciassi il giornalismo, forse formerei un gruppo di sterminio. Però questa è la storia del mio paese, sempre abbiamo cercato di rimediare alla violenza con violenza. È dalla guerra del 1980 che continuiamo a spararci.

—Non deve essere facile vivere in questo contesto.

—Una volta qualcuno mi ha minacciato e l’ho trascinato sulle rotaie del treno mentre facevo un reportage. Stavo intervistando un immigrante honduregno in una località che si chiama Tierra Blanca, a Veracruz. Un tipo ha interrotto l’intervista e ha detto che io ero un trafficante, e che non avevo pagato il pedaggio per poter passare per Tierra Blanca. Voleva soldi. Per tre volte gli ho detto di andarsene. Ma lui insisteva. Ero stufo che mi desse fastidio e ho reagito violentemente. Gli ho detto: “Va bene, sono un trafficante e ti porterò negli Stati Uniti”. L’ho buttato per terra e ho cominciato a trascinarlo lungo le rotaie del treno fino a quando il mio collega mi ha detto “fermati”. C’è una frase di Nietzsche che mi piace molto: non si può guardare fissamente l’abisso, perché l’abisso finirà per guardare verso di te.

—Vedi qualche via di uscita?

—Il giornalismo, sebbene non cambi le cose al ritmo che io vorrei, almeno produce l’effetto dell’onda contro la roccia. El Faro è il primo mezzo di comunicazione che è riuscito a mettere sotto accusa due grandi gruppi di poliziotti per stragi. E l’unico che è riuscito ad includere nella relazione annuale delle violazioni contro i Diritti Umani degli Stati Uniti una richiesta del Governo salvadoregno affinché risolva un caso come quello di San Blas. Siamo l’unico gruppo che ha mandato in prigione un cartello di narcotrafficanti, solo resta uno di loro latitante. Li abbiamo denunciati nel 2010 e hanno agito sei anni dopo, però si è fatto.

—Senti rimorso quando uccidono i tuoi testimoni?

—Soprattutto mi dà rabbia. Sono un uomo che si mette in moto soprattutto per odio. In questo senso, quando succede qualcosa così, quello che faccio è investigare fino alle ultime conseguenze cosa è successo al mio testimone. Nonostante la protezione che avevamo dato loro e il fatto che ci siamo rivolti alla polizia per salvarli, nel dicembre scorso ci hanno assassinato tre fratelli di 16, 18 e 21 anni: a uno gli hanno fatto a pezzi la faccia con colpi di machete, un altro lo hanno carbonizzato, e il terzo era tanto deformato che nell’autopsia non si è potuta stabilire la causa della morte.

—Da quanto tempo senti questa rabbia?

—Non saprei dirti da quanto tempo la sento. La rabbia è stata un motore per funzionare. Qualcosa di organico. È come se mi chiedi quando per la prima volta mi sono goduto una siesta. Non lo so, sempre. Il mio carattere è molto esplosivo, fin da quando ero piccolo.

—Com’è un giorno normale per un salvadoregno?

—In El Salvador c’è gente che vive come se fosse di South Beach, Miami. C’è una zona di bar dove puoi andare a bere qualcosa per 5 dollari. Ma questa non è la gran maggioranza dei salvadoregni. La maggioranza sta attraversando la frontiera in una guerra quotidiana. Parlo di persone delle bande, di impiegati dei supermercati, di autisti degli autobus o di direttori di scuole pubbliche.

—Sono vite difficili.

—Sì. L’impiegato del supermercato deve viaggiare in vari autobus per non attraversare il territorio contrario a quello della banda che lo governa. E anche se non è un membro della banda e non lo è mai stato, vive all’ombra di un governo che non può attraversare il territorio di un altro governo. D’altra parte, moltissima gente usa un’arma per difendersi. Stiamo sempre più attenti e cerchiamo di andare meno da altre parti, di fare le nostre feste in casa. Muoversi non è un rischio, sempre e quando lo si faccia in auto. Non si può camminare dopo le sette di sera, e anche se gran parte della popolazione viaggia in autobus, c’è sempre la possibilità che ti assaltino o che ci sia una sparatoria. La gente vive protetta da lucchetti e catenacci. Rinchiusi nelle loro case da quando tornano dal lavoro. Chiaro che ci sono bambini che vanno a scuola, ma molte madri li accompagnano, anche se hanno 15 o 16 anni. Vanno a prenderli, perché sanno che nelle scuole le bande cercano di agganciarli.

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“Trump sta rafforzando la Mara Salvatrucha”. Così è il titolo dell’articolo che Martinez ha scritto nel Sunday Reviews del New York Times lo scorso febbraio, a proposito della cancellazione da parte del presidente degli Stati Uniti di un accordo migratorio proposto da un gruppo bipartito di senatori. E che la deportazione si affaccia di nuovo come la “gran soluzione” al conflitto delle bande.

Per Martinez queste proposte sono quelle che decenni fa hanno fatto sì che l’acerrimo nemico di Trump, la MS-13, passasse da essere un gruppo di alcune centinaia di salvadoregni a una organizzazione transnazionale che adesso dispone di oltre cento mila membri in tutta l’America Centrale e negli Stati Uniti.

Le cifre parlano da sole e le presenta tutte le volte che va là a fare conferenze: adesso torna dal Vermont. Tanto La Bestia come Una storia di violenza —i suoi libri anteriori— sono stati tradotti all’inglese.

—Alla fine degli anni 80, gli Stati Uniti hanno deportato quattro mila membri di varie bande del sud della California e li hanno mandati a El Salvador, pensando che così si sarebbero liberati di loro. Però questi pochi deportati sono stati mandati in un paese impoverito dalla guerra, e lì in trent’anni sono diventati 60.000.

—Come ti ricevono là?

—Molto bene. Tranne che nella fiera di Tucson, Arizona, dove alcune persone molto arrabbiate si sono alzate per andarsene durante le mie conferenze, repubblicani recalcitranti, che volevano vedere pendere da una trave i migranti senza documenti, quasi dappertutto negli Stati Uniti mi trattano molto bene. Cerco in tutti i modi di preservarmi dalla bolla di sapone che è vivere lì. Mi metto in contatto con la comunità delle persone senza documenti dei luoghi che visito solo per ascoltare cos’altro sta accadendo. Ora, io sono convinto che questa questione di Trump è stata solo la decisione di un presidente che a volte ha lampi di astuzia, e che sapeva, come lo hanno saputo molti politici durante decenni da quando esiste la MS-13, che è un nemico che bisogna far ingrassare. Che è un buon nemico con cui salire sul ring.

—Perché?

—Per due ragioni. La prima è che non sono il complesso transnazionale completamente coordinato come si suole presentarla; e in secondo luogo, i suoi membri decidono perfino figurativamente come presentarsi, sono i perfetti cattivi o li sembrano: hanno la faccia tatuata, hanno commesso omicidi terribili, sembra che facciano parte di una festa del sangue senza ragioni. Allora Trump ha fatto qualcosa che molti altri presidenti avevano già fatto in America Centrale, e anche in Messico o negli Stati Uniti negli anni 80 o 90. Solo che Trump lo ha fatto utilizzando un megafono più potente.

—Nel tuo articolo parli di Obama.

—Chiaro. Le organizzazioni migratorie dei latini senza documenti negli Stati Uniti lo avevano soprannominato “il capo della deportazione”. Obama è un presidente che ha avuto questa sfaccettatura, ma è stata poco divulgata. È stato un presidente che ha puntato sulla deportazione in massa, e che ha espulso moltissimi più migranti senza documenti che il suo predecessore, George W. Bush. Vale a dire, Obama, in termini di politiche pubbliche non si è differenziato per nulla da quello che i presidenti anteriori facevano. In questo senso, è stato un presidente molto simile agli altri.

—Cosa succede in El Salvador alla gente che non si è corrotta?

—È dentro l’immondizia che si trovano le perle più brillanti. Vale a dire, sì, ci sono pepite d’oro. Ed è possibile incontrare persone che davanti all’avversità mantengono con costanza i loro valori etici e morali. Tutte le storie violente sono costruite anche con personaggi di questo tipo. In El Salvador, ci sono monsignor Romero, i gesuiti durante la guerra, decine di uomini e donne che fanno un lavoro anonimo e discreto e che stanno lì tutti i giorni, cercando di assistere le comunità marginali dove lo Stato arriva solo in forma sporadica. Ma sono scintille. E perché queste scintille brillino c’è bisogno di una notte molto scura. E questo è il Centroamerica.

—Hai una figlia piccola. Non ti viene voglia di prenderla e andare da un’altra parte?

—Maria mi addolcisce e mi riempie di timori. Chiaro che mi fa paura che cresca in un paese come El Salvador, dove può succedere di tutto. Ed è difficile prendersene cura senza trasformarla in una bambina iperprotetta. Però no, non potrei andare via.

—Dipendenza dall’adrenalina?

—Direi piuttosto che col passare degli anni ci siamo allenati per questa situazione. E non puoi di colpo portarti un martello a una fabbrica di ovatta, perché non gli si troverebbe nessuna funzione. Ho già abitato a Barcellona e mi sono annoiato. So vivere solo in un posto così.

*Que Pasa

Traduzione dallo spagnolo di Francesca Casaliggi

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