“GUARDARE IL MOSTRO NEGLI OCCHI”. La grande piaga della corruzione Odebrecht in America Latina. Dieci paesi coinvolti, con capi di stato, presidenti e alti funzionari di governo

La corruzione uccide
La corruzione uccide

Quattro anni fa nessuno poteva immaginare che la matassa che si comincia a sciogliere il 17 marzo del 2014 con l’annuncio in Brasile dell’investigazione giudiziaria Lava Jato, il più grande scandalo di corruzione nella storia del continente, avrebbe lasciato sul terreno una scia di governanti, politici e impresari per fatti di corruzione in 10 paesi dell’America Latina, che a tutt’oggi superano la bella cifra di 10.000 milioni di dollari, secondo le stime ufficiali. E meno ancora che avrebbe provocato un terremoto politico con le dimissioni di un capo di Stato, la destituzione di un vicepresidente e il processo con alte possibilità di prigione di un ex leader di grande popolarità.

Un capitolo rilevante del Lava Jato è quello che ha come protagonista l’impresa di costruzioni brasiliana Odebrecht, da quando la Giustizia del Brasile ha accettato la confessione di quasi 80 dirigenti e dipendenti della holding —tra questi, l’expresidente Marcelo Odebrecht — in cambio della riduzione delle pene. Confessioni che in seguito sono state comprovate dalla Giustizia di una decina di paesi coinvolti: pagamento di tangenti a partiti politici e funzionari pubblici con l’obiettivo di aggiudicarsi opere pubbliche, pratica frequente almeno tra il 2005 e il 2016.

Ultimo caso in ordine di tempo quello del presidente del Perú, Pedro Pablo Kuczynski, che si è dimesso mercoledì 21 marzo prima di essere destituito dal Congresso, nel bel mezzo di uno scandalo che si trascinava da dicembre scorso per aver ricevuto tangenti da Odebrecht quando era ministro dell’expresidente Alejandro Toledo. Lo stesso Toledo è oggi profugo della Giustizia peruviana, che lo ha condannato alla prigione per aver accettato 20 milioni di dollari dall’impresa attraverso la quale il Brasile del Partito de Trabajadores (PT) esportava il suo modello di corruzione agli altri paesi della regione.

Giovedì i mezzi di comunicazione brasiliani hanno divulgato la notizia: il Supremo Tribunale Federale ha posticipato al 4 aprile la decisione circa la richiesta dell’expresidente Luiz Ignacio Lula da Silva di evitare la prigione; ha però garantito che non sarà incarcerato fino alla conclusione del dibattimento. L’annuncio dà un respiro al fino poco tempo fa mondialmente acclamato leader della sinistra brasiliana, che correva il rischio imminente di finire in prigione se il prossimo lunedì il tribunale d’appello avesse respinto gli ultimi appelli della seconda istanza.

Il Lava Jato, e ciò che ne deriva, è un megascandalo, una trama di corruzione gigantesca e senza precedenti. Non si era mai visto cadere in disgrazia così tanti governi, presidenti ed ex capi di stato come effetto dello stesso schema di corruzione e praticamente con la stessa impresa.

È vero che in Brasile ci sono altre imprese edili implicate nell’operazione, come OAS (per la quale Lula è accusato di aver ricevuto un appartamento di lusso in uno stabilimento marittimo di San Paolo in cambio di contratti d’opera con la Petrobras), Queiroz Galvão, Camargo Correa, UTC e Andrade Gutierrez. Però Odebrecht è, di gran lunga, la società più compromessa. I danni che ha causato allo Stato brasiliano si stimano in circa 3.000 milioni di dollari, secondo le cifre della Polizia Federale del Brasile; pari quasi a quello causato dalle altre cinque imprese messe insieme. Mentre negli altri paesi della regione Odebrecht sembra aver avuto il monopolio dell’operazione corruttiva.

Lo schema, al di là degli astronomici importi sottratti e la sofisticata ingegneria finanziaria che seguiva la rotta del denaro, consisteva in un’operazione abbastanza semplice: aggiudicare a Odebrecht, o alle altre imprese implicate, contratti di opere pubbliche milionari con sovraprezzi che oscillavano tra il 10% e il 20%. Dopodiché si aggiungeva un 3% al prezzo finale sotto la voce di “adeguamenti politici”; sembrava un po’ brutto chiamarle direttamente “tangenti”. Questo ha permesso a un gran numero di funzionari, dirigenti e partiti politici di accumulare vere fortune nei loro accordi con l’impresa di costruzione brasiliana, che in più finanziava con i suoi milioni, le campagne presidenziali di vari candidati nei differenti paesi in cui operava. In questo modo il cerchio si chiudeva permettendo l’enorme furto regionale.

Tutta questa trama si è conosciuta grazie all’indipendenza della Giustizia brasiliana, e l’implacabilità del giudice federale di Curitiba, Sergio Moro, la cui indagine ha beneficiato delle cosiddette “delazioni premiate”. Mediante questa figura del diritto penale brasiliano, alcuni accusati possono vedere le loro pene ridotte in cambio di informazioni. Anche se oggi una tale figura giuridica è messa in discussione da alcuni legislatori che si propongono di derogarla nel Congresso; con il risultato di ostacolare l’avanzare delle principali cause. Fino ad ora, la strategia del super magistrato di Curitiba per incentivare le confessioni è risultata altamente efficace, e demolitrice per i corrotti di tutto il continente.

In Brasile l’indagine ha portato dietro le sbarre o processato senza prigione circa 300 dirigenti politici e conosciuti imprenditori; ha condotto allo sfacelo del Partido de Trabajadores e danneggiato il prestigio internazionale di Lula e del Brasile stesso come potenza emergente. Tra i processati troviamo, oltre a Lula, il suo capo staff e figura famosa del PT, José Dirceu; l’exministro delle finanze di Lula e di Dilma, Antonio Palocci; l’exdirettore dei mezzi di comunicazione delle campagne presidenziali di Lula e di Dilma, Joao Santana; l’exministro delle finanze di Dilma, Guido Mantega; l’expresidente della Camera dei Diputati, Eduardo Cunha; l’exdirettore di Petrobras, Paulo Roberto Costa, l’expresidente della holding Odebrecht, Marcelo Odebrecht; e decine e decine di senatori e deputati di tutti i partiti.

Il grosso della rete Lava Jato era legato a contratti d’opera con Petrobras, la cui perdita totale provocata dall’operazione si stima in circa 13.000 milioni di dollari.

Dalle confessioni ottenute da Moro a Curitiba, in particolare quella di Marcelo Odebrecht, che nel dicembre scorso è uscito dal carcere per completare la condanna nella sua residenza a San Paolo, ha cominciato presto a debordare un’ondata di fango fuori dalle frontiere del Brasile come uno tsunami inarrestabile. Argentina, Colombia, Equador, Perú, Venezuela, Panamá, Guatemala, Messico e Repubblica Dominicana sono alcuni dei 12 paesi -incluse due nazioni africane- dove l’impresario brasiliano ha riconosciuto aver operato con lo stesso schema.

Il paese in cui ha avuto maggiore ripercussione fuori dal Brasile e dove si sono stati processati il maggior numero di implicati è il Perú. Oltre alle dimissioni di Kuczynski —che adesso dovrà affrontare la Giustizia senza privilegi presidenziali— e la condanna di Toledo, sono stati processati con prigione l’expresidente Ollanta Humala, sua moglie, Nadine Heredia, e i potenti imprenditori Josè Graña Miró Quesada, Hernando Graña Acuña, Fernando Camet Piccone e José Castillo Dibós. Tutti condannati per corruzione vincolata alle opere di Odebrecht nella Via Interoceanica.

In Equador, il vicepresidente a quel tempo in funzione, Jorge Glas, è stato condannato a sei anni di carcere per aver ricevuto tangenti da parte di Odebrecht insieme ad altre otto persone, tra le quali c’è suo zio, l’impresario Ricardo Rivera, anche lui processato, che agiva da ponte tra Glas e l’impresa di costruzioni brasiliana.

In Colombia, l’exviceministro ai Trasporti durante il governo di Álvaro Uribe, Gabriel García Morales, è stato condannato a cinque anni di prigione per aver ricevuto tangenti dalla costruttrice, che inoltre ha pagato 1 milione di dollari per la campagna presidenziale di Juan Manuel Santos nel 2014. Gli altri processati in Colombia a causa dei loro legami con la corruzione sono l’excongressista Otto Nicolás Bulla e gli impresari César Hernández, Andrés Cárdona, Eduardo Ghisays Manzur, suo fratello Enrique Ghisays Manzur e José Melo Acosta, e un’altra decina di imputati dal Ministero Pubblico colombiano.

È stato così che centinaia di milioni di dollari della corruzione sono andati a finire nei conti in banca di vari dirigenti e dei loro prestanome; altre centinaia di milioni, nelle casse dei partiti politici di tutta la regione. I testimoni del caso coincidono affermando che 200 milioni di dollari di Lava Jato sono stati destinati alla campagna presidenziale di Dilma nel 2010.

Oggi l’indagine di Moro continua facendo sfilare politici e impresari per le aule giudiziarie, nonostante i vari intenti di farla saltare. La sua azione è popolare tra i brasiliani che, secondo le statistiche, l’appoggiano in gran numero. La grande costernazione causata dalle rivelazioni e la crisi morale dei partiti politici sono ancora molto presenti nella coscienza collettiva brasiliana. Così come in altro momento la corruzione ha tracimato ad altri paesi, oggi ciò che trabocca è la domanda sociale di trasparenza e di castigo ai corrotti. In questi termini, il Perú è un buon esempio.

Deltan Dallagnol, il primo magistrato del Lava Jato in Brasile, ha dichiarato che immergersi nella gigantesca e sofisticata macchina delittiva dell’operazione è stato come “guardare il mostro negli occhi”. Per qualunque giornalista o investigatore, affacciarsi sull’immensità del caso e le sue infinite cause è come guardare a tante tangenti quante sono le stelle nell’universo.

Un mostro che sembra uscito da un racconto di fantascienza. Chissà che per questo motivo, dopo l’esito mondiale di Narcos, il direttore brasiliano José Padilha ha avuto l’audacia di ritrarre la rete di corruzione Lava Jato in una nuova serie di Netflix.

*El Observador (Uruguay)

Traduzione dallo spagnolo di Silvia Pizio

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