I MIRACOLI DEL CONSERVATORE MONSIGNOR MAROZZI. Ricordo di un vescovo argentino tradizionalista che quando iniziò la dittatura si comportò come un vero pastore

Il carcere Alcaldía della città argentina di Resistencia
Il carcere Alcaldía della città argentina di Resistencia

José Agustín Marozzi fu vescovo di Resistencia negli anni della mia infanzia e adolescenza. Era considerato un uomo molto conservatore, di quelli alle cui orecchie “ecumenismo” suonava come “comunismo”, come diceva un poco scherzando e un poco seriamente mio padre che, come pastore protestante, aveva avuto qualche battibecco con lui. Mio padre sentiva una forte vocazione per la unità tra cristiani. Alcune iniziative di lavoro condiviso da pastori evangelici e sacerdoti cattolici si scontravano con l’opposizione del vescovo.

Così sono cresciuta ascoltando critiche contro “Monseñor Marozzi” senza immaginare -meno ancora lo avrebbe immaginato mio padre- che i nostri destini si sarebbero incrociati con quelli di questo sacerdote in un modo inaspettatamente benefico per la mia famiglia.

Erano tempi in cui la Chiesa Cattolica era attraversata dalle polemiche sulla Teologia della Liberazione e il movimento dei Sacerdoti del Terzo Mondo. Le posizioni si polarizzavano, come anche nel resto della società. Non c’era spazio per le sfumature di grigio, per il dialogo, per la concordanza; si stigmatizzava l’avversario. Monsignor Marozzi, per i canoni del momento, era un conservatore, un retrogrado.

Senza dubbio, in momenti molto duri per tante persone, ha agito come un vero pastore. Poco prima del colpo di Stato, alcune prigioniere politiche rinchiuse nel carcere provinciale femminile -la Alcaidía de Resistencia– hanno avuto la buona idea di scrivere al vescovo chiedendo assistenza spirituale. Dietro questa richiesta c’era un motivo più urgente. Si vedeva venire il colpo di Stato e temevano che le condizioni di reclusione diventassero più dure.

Fu premonitore. La Alcaidía, ma anche l’Unità Penale N°7 di Resistencia -di regime federale, era esclusivamente maschile-, vennero completamente isolate. Per i prigionieri politici non c’erano visite, né lettere, né giornali. Nessuna comunicazione con l’esterno. Eccetto la messa che su richiesta delle prigioniere celebrava monsignor José Agustín Marozzi tutti i sabati mattina nella mensa del carcere provinciale per donne.

Quando i militari mi arrestarono in casa mia -la mattina presto del 17 maggio del 1976-, per la mia militanza nella Unión de Estudiantes Secundarios (UES), ai miei genitori, come succedeva a tante famiglie, il mondo gli cadde addosso. La principale preoccupazione e occupazione era cercare di vedermi, che mi restituissero la libertà, appellarsi a ogni contatto possibile…

A dieci giorni dall’arresto, sono stata trasferita all’Alcaidía dove, come ho già detto, l’isolamento era totale. Le prime parole che mi dissero le mie compagne furono che quello stesso sabato dovevo parlare con il vescovo per chiedergli di avvertire i miei genitori che mi trovavo lì.

“Non posso farlo, Marozzi detesta mio padre”. Loro insistevano.

Non ricordo che giorno della settimana sono arrivata lì, però sí mi ricordo che fino al sabato non riuscivo a decidermi; in realtà, non me la sentivo. Non avevo mai parlato con Marozzi, lo conoscevo solo di nome. Ero molto piccola e temevo che mi avrebbe rimproverato.

Sabato arrivò e le compagne, quasi tutte, se non tutte, più grandi di me, insistevano: dovevo parlare con lui. La cosa era così: Marozzi veniva con un altro sacerdote che, mentre lui celebrava la messa, confessava quelle che volevano confessarsi. Alla fine della cerimonia, tutte si precipitavano sul vescovo che tirava fuori bigliettini dalle pieghe della sua tonaca dove annotava i messaggi. “Maria, i tuoi genitori sono venuti a vedermi ieri, stanno molto bene, ti salutano. Cosa gli dico?”. E così con tutte.

Avevo un nodo alla gola. Tra il nervosismo e la timidezza, dovevo fare uno sforzo enorme per non piangere. Le compagne mi hanno praticamente spinta, “parlagli adesso”.

“Monsignore… vorrei sapere se può avvisare i miei genitori che mi trovo qui…”.

“Qual è il tuo nome, figlia mia?”.

“Claudia Peiró…”.

“Ah, sí -m’interruppe-, i tuoi genitori sono già venuti a trovarmi, sí, sí, sono stato con loro…”.

In quel momento stavo già piangendo a dirotto immaginando mio padre disperato, senza importargli delle discordie passate, bussando insieme a mia madre alla porta della Curia, perché sicuramente altri famigliari con cui si incontravano tutte le volte che facevano la fila, che andavano in un qualche ufficio, ogni volta che dovevano aspettare mie notizie soffrendo, avranno passato loro l’informazione.

Così, ogni sabato, dopo la messa, monsignor Marozzi trasmetteva i messaggi famigliari e annotava i nostri. Durante la settimana riceveva le famiglie, personalmente a volte, per telefono in altre occasioni. Alcuni addirittura si comunicavano tramite lettera, poiché c’erano prigionieri di altre provincie. Inoltre, portava i messaggi da un settore all’altro, perché c’erano anche uomini nella Alcaidía, tra questi, fidanzati, mariti o semplicemente amici di qualche detenuta.

Così, il conservatore Marozzi visitava le carceri in tempi difficili, senza fare nessuna discriminazione con i prigionieri politici con le cui idee, ovviamente, non era per nulla d’accordo. Non ha fatto nessuna discriminazione con me, non ha nemmeno obiettato la mia partecipazione alla messa. È stato il nostro nesso con il mondo in condizioni di isolamento totale. Ho imparato che non si devono giudicare le persone per le loro idee politiche.

Ha compiuto anche il suo piccolo “miracolo” in quel carcere: poco prima del 15 agosto (Assunzione di Maria) tutte le carcerate facemmo la processione con la statua della Vergine Maria nel cortile del penale… Glielo dovevamo e non mancò nessuna. Avevamo imparato l’inno che dice “oh Maria, Madre mia, oh consolazione del mortale…”.

La scena aveva qualcosa di felliniano. Oggi diremmo almodovariano. Ma era anche emozionante. Non potevamo dire di no a Marozzi, e lui era felice, con il suo piccolo gregge di carcerate.

Però il diavolo ci ha messo lo zampino, come succede spesso.

Il vescovo era così compenetrato con la nostra causa umana, così commosso dai drammi che vedeva -immagino quante madri avranno pianto davanti a lui-, che voleva aiutarci. Aveva saputo che in agosto sarebbe venuto Jorge Rafael Videla in visita a Resistencia.

Ci disse: “Gli chiederò che tolga l’isolamento perché possiate vedere le vostre famiglie”.

Ingenuo lui e incoscienti noi che non abbiamo intuito il pericolo. Fatto sta che non eravamo pienamente coscienti di quello che si stava vivendo fuori. Abbiamo persino pensato che la sua iniziativa potesse avere buon esito.

Il sabato successivo alla visita di Videla, monsignor Marozzi è venuto come sempre a dar messa. Però questa volta la cosa non si sarebbe conclusa bene.

A metà della cerimonia, iniziarono a entrare soldati nella mensa, che aveva quei corridoi elevati come dei balconi interni lungo tutte le pareti, tipico delle carceri e che si usano proprio per sorvegliare i detenuti. I soldati si stavano disponendo lungo questo corridoio, con un evidente atteggiamento intimidatorio. Il povero Marozzi cercava di continuare la celebrazione ma i nervi lo tradivano, credo che ripetesse anche alcune parti della cerimonia.

Verso la fine, un gruppo di soldati con il direttore in testa, entrarono da una porta laterale, vicino all’altare.

Marozzi ci guardava allarmato, come dicendo: “oggi non avvicinatevi, per favore”.

Appena terminò la messa, il direttore si avvicinò e lo prese per il braccio: “Mi accompagna, Monsignore?”.

Credevamo che lo mettessero dentro. I militari l’avrebbero fatto, erano capaci di qualunque cosa. Abbiamo trascorso diversi giorni nel dubbio. Più tardi abbiamo saputo che cos’era accaduto. Videla non ricevette Marozzi, ovviamente. Ma lo fece un altro generale, non ricordo chi. Come può essere che le “sovversive” vadano a messa?! E per di più il vescovo ha il coraggio di intercedere per loro?!

Tanti saluti! Il risultato è stato opposto a quello che sperava Marozzi, che si era giocato per noi e aveva messo in pericolo la sua libertà e la sua integrità fisica. Aveva quasi 70 anni allora e lo shock non sarebbe stato senza conseguenze.

Lo intimidirono per fargli sentire il rigore: per fargli capire che non poteva venire più a dir messa ci mancò poco che non occupassero militarmente il penale.

Sappiamo che l’atteggiamento della gerarchia ecclesiastica non fu uniforme: ma mentre alcuni guardarono dall’altra parte e furono conniventi, diversi vescovi e sacerdoti agirono come veri pastori, mossi da questa misericordia che invoca sempre Papa Francesco, arrivando alcuni fino al martirio pur di servire.

Un altro esempio nel Chaco è stato il cappellano dell’Unità Penale N°7, Elvio Brissaboa, che anche lui ha fatto da nesso tra i prigionieri politici e le loro famiglie, sempre ricordato e omaggiato da loro.

Monsignor Marozzi era nato a Santa Fe. Con 54 anni fu uno dei vescovi argentini che assistette al Concilio Vaticano II. Lasciò la diocesi di Resistencia nel 1984. Morì nell’agosto del 2000.

Nel processo ai militari che perpetrarono il così chiamato “Massacro di Margarita Belén”, dal nome della località dell’interno del Chaco dove nel dicembre del 1976 vennero fucilati vari prigionieri della U7, un ex detenuto, Jorge Migueles, ricordò Marozzi e il vescovo di Goya, Alberto Devoto, che anche lui si era giocato la vita per lui e gli altri incarcerati: “Ritengo che il suo intervento (di Devoto) e quello dell’allora vescovo di Resistencia, José Agustín Marozzi, mi salvarono la vita”.

Dio li abbia in gloria.

*Giornalista del quotidiano on-line Infobae (Argentina)

 Traduzione dallo spagnolo di Silvia Pizio

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