“NESSUNO SI SALVA DA SOLO”. La narcocultura prende piede nelle città del Cile. Ma se ne ha scarsa coscienza. Quel che può fare lo stato, quello che deve fare la comunità

L’ingresso del “Hogar de Cristo” di Santiago del Cile
L’ingresso del “Hogar de Cristo” di Santiago del Cile

È da miopi pensare che l’aereo non cadrà perché io viaggio in prima classe. Ma sta succedendo proprio questo in Cile con il narcotraffico nei quartieri poveri, me lo conferma l’impatto che hanno avuto, su questo giornale, le mie risposte a proposito dell’espansione della narcocultura tra la popolazione. Lo stupore di tanti che domandano “Ma succede per davvero qui, da no?” dà di che pensare. Colpisce quanto sia sconosciuta la realtà del Cile segregato che abbiamo costruito. Questa parte del paese abbandonata dallo Stato precario, dai privati disattenti e dalla società civile spaventata, questa parte del territorio di cui si è fatto carico il narco, mentre noi eravamo assenti.

La catastrofe è balzata all’opinione pubblica perché un sacerdote in San Joaquín ha ricevuto la terza minaccia di morte, non perché i giornali abbiano scavato tra le informazioni disponibili da mesi: esistono 426 quartieri critici in tutto il Cile, secondo il rapporto 2016 della Procura che chiunque può leggere nel web. Lì c’è tutta l’informazione e colpisce come le mappe delle città si riempiono di puntini rossi, come se si trattasse di un morbillo mortale. Perché non ce ne siamo resi conto prima? Perché non ci ha lasciati insonni, come fanno le sparatorie che adesso non lasciano dormire migliaia di abitanti di questi quartieri?

È urgente “deslegualizar”, smettere di pensare che questa crisi accada solo in La Legua (una località nel sud di Santiago del Cile, N.d.T.); non capita solo in La Legua e gli altri luoghi che sono stati stigmatizzati per far sì che la gente ignori che i sintomi investono l’intero paese. Completiamo il piano di sicurezza cittadina con lucidità, sapendo che così onoriamo i diritti fondamentali che sono alla base della pace e del recupero del territorio. Ma facciamo anche il passo seguente, senza pensare a ciò che deve fare l’altro, ma a quello che devo fare io. Le politiche pubbliche urgenti si concretizzeranno domani se io faccio la mia parte oggi nella riparazione dei diritti e del recupero del territorio. Se non lo faccio io, continuerà a farlo “il padrino” della zona. Lui darà un salario sufficiente, lui presterà soccorso all’ammalato, lui pagherà gli studi e offrirà feste di laurea; il tutto finanziato vendendo droga ai nostri figli e imponendo il terrore con una catena insospettabile di crimini. Lo farà lui che è nostro fratello e che ha anche bisogno d’aiuto per recuperare la sua vita.

Riconquistiamo il senso di comunità. “Ciò che salva è la comunità”, dicono i preti delle villas di Buenos Aires nel loro lavoro nei quartieri dominati dal “paco”, come chiamano lì la pasta base. “Farsi popolo”, dice Francesco. Questo implica conoscere e valorizzare le forme di organizzazione che spontaneamente sorgono per resistere alla corruzione. Sappiamo già che la narcocultura cresce quando gli stipendi non bastano, quando lo Stato è precario e quando i pastori si chiudono nei loro templi e continua quando si debilitano i vincoli sacri che non si possono comprare con il denaro: famiglia, relazioni con i vicini, organizzazioni di base.

Papa Francesco lo dice spesso: “Nessuno si salva da solo”. Alcuni credono che per salvarsi ci si debba chiudere di più, aggiungere lampioni e inferriate, riempire le strade di carabineiros. Ma la repressione del delitto non disincentiva il suo reiterarsi se non si affianca ad un lavoro per realizzare una giustizia che ripara, che aggiusta i rapporti per poter vivere insieme. Non possiamo esimerci da questo compito se vogliamo la pace. Per questo l’apartheid che costruiamo nelle nostre città è così nocivo, perché ci sta rendendo incapaci di pace, di essere comunità. In questa sfida, la persecuzione penale, i servizi di intelligenza della polizia, sono utili nel brevissimo termine. Ma quello che deve essere prioritario è uno sguardo che abbia dentro le misure del futuro.

Possiamo fare le cose in modo differente. Rafforziamo la maniera di rapportarci gli uni agli altri con un genuino sguardo al “bene comune”, partendo da dove abbiamo le responsabilità più grandi. Nessuno si salva da solo. Questo impariamo da Gesù. Tutti possiamo aiutare a generare alternative di sviluppo all’altezza dei diritti umani di ogni persona e della dignità del nostro destino comune. All’altezza non della paura, ma della dignità.

*Gesuita, Cappellano dell’“Hogar de Cristo” di Santiago del Cile

 Reflexión y Liberación

Traduzione dallo spagnolo di Silvia Pizio

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