HAITI OTTO ANNI DOPO IL TERREMOTO CHE DEVASTÓ L’ISOLA. Tra un cuore che non si arrende e una “resistenza” a prova di tutto

“Non posso parlare”
“Non posso parlare”

Jean Dominique -si dice che sia il miglior giornalista di Haiti di tutti i tempi- era solito dire che l’haitiano si esprime più con segni che con parole. L’abitante di Haiti parla realmente poco quando parla (mi si scusi la ridondanza): o meglio, gesticola, ride a crepapelle, grida, mima, tocca il suo o i suoi interlocutori e, a volte, cammina, corre, salta, si rannicchia. È come se la parola non solo volesse articolarsi, dirsi e comunicarsi (ovvero, uscire semplicemente dalla bocca come una voce che veicola significati), ma anche mettere in scena, teatralizzare, “drammatizzare”, ri-creare il contesto, la vita, la storia, il mondo. La conversazione spontanea tra gli haitiani è tutta una messa in scena (una performance teatrale improvvisata) che è piacevole da vedersi. Questa forma di parlare corrisponde alla struttura della lingua che gli haitiani hanno inventato: il creolo. È un linguaggio tessuto da frasi incomplete, puntini di sospensione, pause inaspettate che, paradossalmente, sono altamente significative. Se si rimane solo con i significati letterali delle frasi e di ciò che si dice verbalmente, sicuramente si capirà molto poco del senso di quello che si vuole comunicare. Il creolo è una forma d’esprimersi intrecciata, composta da silenzi ricchi di significato che tentano di superare i limiti di questo idioma e, in certi casi – come vedremo subito-, dicono l’indicibile. Il silenzio si converte in un secondo linguaggio (comune) che solamente gli haitiani e chi conosce in profondità la loro cultura possono interpretare correttamente.

“Non posso parlare”. Comincio con questa lunga introduzione per contestualizzare perchè, dopo il terremoto del 12 gennaio del 2010, la maggioranza di coloro che vissero questa tragedia (fino ad ora, la peggiore di questo secolo) non parlavano: semplicemente “si lamentavano nel loro cuore” (“yo t ap plenn nan kè”, in creolo) facendo silenzio; lamentele che si articolavano nell’onomatopeico “Mmmmmmmm”. Di fatto, la parola che gli haitiani inventarono per tentare di sillabare il dramma del terremoto è una onomatopeia: “Goudougoudou”; alcuni la traducono così: “un lamento nel cuore” (“se yon plenn nan kè”). Rappresenta come le persone di Haiti vivono il “senzasenso” del terremoto, in un modo considerevolmente spirituale e profondo (dal cuore). Il sisma fu un colpo al cuore, da dove uscì un lamento in forma di onomatopeia. Come un grido del cuore. Un urlo disperato, come volendo risvegliarsi da un incubo.

Serve sottolineare che davanti al dramma e -di fatto- davanti agli eventi che colpiscono al cuore (per esempio, la morte di un caro)-, gli haitiani sono soliti gridare questa espressione: “Non posso parlare” (“m pa kapab pale”). Con questo, si intende che l’unica frase che si può dire davanti all’indicibile, ovvero davanti all’incapacità o all’impossibilità di parlare, è giustamente questa: “Non posso parlare”. La parola che dichiara paradossalmente la sua incapacità di dire! In fondo ci possiamo anche chiedere: Perché parlare di fronte al “senzasenso”? Che dire? Non siamo davanti ai limiti del comprensibile, del ragionabile? Da un cuore così duramente colpito, può forse uscire qualcosa di buono? Qualcosa così come una parola di incoraggiamento, speranza, solidarietà, umanità, tenerezza, consolazione? I limiti del linguaggio non sono solamente “i limiti del mio mondo” così come lo proponeva Ludwig Wittgenstein; sono anche i limiti della poesia, dell’umanità e incluso, della nostra visione di Dio o dei “loas” (gli spiriti del vudú haitiano). Sono i margini, i bordi e le crepe del senso, del pensiero e della stessa ragione.

“Stare con”. Durante un viaggio in aereo da Puerto Principe a Bogotá con scalo a Panamá, mi diedero un posto di fianco ad un colombiano che era stato ad Haiti per aiutare le vittime del terremoto. L’uomo era originario di Armenia, la città colombiana che fu colpita da un sisma mortale il 25 gennaio del 1999. Mi raccontò che, secondo la sua esperienza, quello di cui hanno più bisogno le vittime dopo aver vissuto un dramma di questa magnitudine è la presenza di altri esseri umani. La solitudine aggrava esponenzialmente il dolore e genera paura, ansia, disperazione e una desolazione tanto infernale come la stessa morte, mi spiegava convinto. Questo colombiano, sessant’enne, contadino e volontario della Croce Rossa Colombiana, era stato ad Haiti essenzialmente per stare con gli haitiani, per far sentire loro che non erano soli e per accompagnarli negli sforzi disperati di togliere dalle macerie degli edifici i loro cari. Con la remota speranza (molto remota), “penumbral” (penombrale) e caparbia di incontrare, vivi o morti, i loro amati. Una speranza che la ragione non può capire del tutto.

Di nuovo è il cuore ferito che si lamenta e libera il suo ultimo respiro per dire, ma senza parole: “Finché c’è vita, c’è speranza”. È possibile che quest’ultima sia la chiave per comprendere la storica resistenza del popolo haitiano che non si è piegato davanti alle avversità (per più di due secoli di un’indipendenza che gli è costata molto cara) e che, al contrario, si rialza dopo le cadute.

Ho accompagnato, come traduttore, un gruppo di medici che venivano da Porto Rico a prestare assistenza alle vittime del terremoto in varie città di Haiti. Mi sorprese la loro sorpresa (di nuovo la ridondanza), quando vedevano come gli haitiani riprendevano rapidamente le loro attività e le loro vite (improvvisando accampamenti, ricostruendo case, organizzando riunioni di vicinato), dopo un colpo così duro. Mi dicevano che questo era incredibile e incomprensibile: “Come, così rapidamente?”. Il mio stupore si deve a che, da quando ero bambino, sono abituato a vederli ricevere colpi, affrontarli e rialzarsi; ho potuto vedere questa stessa resistenza nella Repubblica Domenicana e nei paesi dell’America Latina (Brasile, Cile, Equador, Colombia, Panamá, Venezuela, tra altri), dove ho avuto l’opportunità di accompagnare gli immigranti e appoggiarli nella difesa dei loro diritti e della loro dignità. Le ferite erano diverse: dittature, esercito “golpista”, repressione, corruzione della classe politica, indifferenza della élite socio-economica, malafede delle autorità del paese e dei settori della cosiddetta “comunità internazionale”, neocolonialismo nordamericano e franco-canadese, mancanza di unità tra gli stessi haitiani, vulnerabilità davanti alle catastrofi ambientali, mancanza di protezione dei diritti umani degli immigranti, discriminazione, xenofobia, e altro ancora.

Continuano e sicuramente continueranno i colpi. Senza dubbio, tra un cuore che giammai si arrende e una “resistenza” a prova di qualunque cosa, il popolo haitiano va avanti. È ora di manifestare solidarietà continentale con il popolo haitiano, tanto con chi vive in Haiti come con gli stessi immigranti (decine di migliaia) che errano nel continente americano dietro il “Goudougoudou” del 12 gennaio del 2010, in cerca di protezione internazionale dei loro diritti umani e di condizioni di vita migliori.

*Professore e ricercatore della Pontificia Universidad Javeriana, Bogotá, Colombia

Migrantes Hoy

Traduzione dallo spagnolo di Silvia Pizio

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