UNA NAZIONE SENZA INDIGENI. L’Uruguay, paese audace in materia di politiche sociali, si trova di fronte a una sfida nuova e vecchia allo stesso tempo: il problema charrúa

Ancora oggi i charrúas suonano trombe per annunciare che si avvicina un pericolo (Foto Pablo Albarenga)
Ancora oggi i charrúas suonano trombe per annunciare che si avvicina un pericolo (Foto Pablo Albarenga)

Dopo quasi due secoli in cui sono rimasti confinati in un immaginario popolare delimitato dai racconti dei loro colonizzatori, i charrúa riappaiono per saldare conti in sospeso. L’etnia, che è sopravvissuta a oltre 300 anni di colonizzazione e a un massacro programmato, si alza in piedi per interpellare uno Stato le cui fondamenta si appoggiano sui suoi antenati. Il movimento riunisce in tutto il paese all’incirca due mila persone che si identificano come charrúa. Inoltre, gli ultimi studi genetici realizzati smentiscono la credenza popolare che l’Uruguay è stato popolato esclusivamente dalle “persone che sono scese dalle barche”, provenienti soprattutto da Spagna e Italia.

In Uruguay, charrúa si coniuga al passato. Secondo la storia ufficiale, gli indigeni si sono estinti nel 1831. Quei coraggiosi individui dagli occhi piccoli, pomoli prominenti e capelli neri, fino a poco tempo fa rimanevano presenti solo in alcune espressioni popolari della cultura delle rive del Rio de la Plata, come la “garra charrúa” (“gli artigli charrúa”), tanto usata nell’ambiente sportivo per riferirsi a coloro che non si danno per vinti e lottano fino all’ultimo respiro. Forse questa caratteristica è il combustibile che alimenta questo risorgere, dando avvio a un processo di etnogenesi.

Il termine è stato coniato da Miguel Alberto Bartolomé, antropologo, professore e ricercatore dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia del Messico. Si riferisce al processo di riconfigurazione e risorgimento di diverse etnie motivato da fattori esteriori. Nel caso dei charrúa, la violenta costituzione dello Stato Orientale li ha portati a mimetizzarsi e a rinunciare alla loro identità per passare inosservati ed evitare in questo modo di essere discriminati. Il cambiamento delle condizioni esterne, il riconoscimento internazionale delle comunità indigene e l’orgoglio della propria appartenenza, han fatto sì che questi popoli riappaiano, decisi a riportare a galla la loro storia. Secondo Mónica Michelena Díaz, consulente di questioni indigene dell’Unità Etnico-Razziale del Ministero degli Affari Esteri, il loro processo di autoscoperta è iniziato nel 1985, poco dopo la fine della dittatura militare in Uruguay. Un’opera teatrale che rappresentava il massacro accaduto nella località di Salsipuedes avrebbe risvegliato la loro curiosità. “Per noi è stata un’opera molto importante, perché metteva in questione la modalità di formazione dello Stato uruguaiano”, dice Mónica, che a 19 anni ha scoperto che il suo bisnonno era charrúa. Si è sentita piena di domande ed è andata a cercare le risposte. Questa donna inquieta con voce sottile e argomenti decisi ha fondato nel 2005 il Consiglio della Nazione Charrúa (CONACHA) insieme a vari gruppi di discendenti.

Juan Carlos “Pocho” anche lui è discendente di charrúa. É nato nel dipartimento di Rivera. La sua bisnonna era charrúa. Fu fatta prigioniera a Salsipuedes e consegnata in una tenuta del dipartimento di Durazno. Il consiglio raggruppa oggi dieci organizzazioni di tutto il paese e si occupa di vari settori. Uno dei suoi obiettivi principali è che lo Stato riconosca l’esistenza della popolazione indigena nel paese e che si ratifichi la convenzione 169 dell’ILO (Organizzazione Internazionale del lavoro), che regola materie connesse alle consuetudini e al diritto dei popoli indigeni di mantenere e rafforzare le loro culture, forme di vita e istituzioni proprie, così come il loro diritto di partecipare attivamente alle decisioni che li riguardano. Si occupano anche di ottenere una maggiore autoidentificazione indigena e rivendicano l’uso del termine “genocidio” per riferirsi al massacro accaduto a Salsipuedes. “I nostri antenati hanno perso la vita in un’imboscata programmata da parte dello Stato”, afferma Mónica.

Uruguay e la Guyana sono gli unici paesi dell’America Latina che ancora non hanno ratificato la convenzione 169 dell’ILO. “Nel 2015 ero a Bilbao con una borsa di studio dell’ONU. Ho saputo che il presidente Mujica sarebbe andato insieme ad Almagro (ministro degli esteri dell’Uruguay) al consolato, così ho preparato di nuovo il fascicolo con tutta la documentazione chiedendo la ratifica della Convenzione”, racconta Mónica, che ha consegnato la richiesta nelle mani delle due autorità. Al suo ritorno in Uruguay, hanno partecipato a una riunione nel Ministero del Lavoro e la Sicurezza Sociale, ma la risposta che ha dato loro il sottosegretario li ha colti di sorpresa: “Ci ha detto che scendessimo ‘dal cavallo’ e che chiedessimo di ratificare solo alcuni articoli della convenzione”, dichiara Michelena. Ma la consulente di questioni indigene sa che questo non è possibile. La ratifica è totale e non ammette riserve. Ultimamente, dopo il cambiamento del governo, i delegati attuali del CONACHA hanno fatto un nuovo tentativo. Ma l’allora vicepresidente Raúl Sendic ha assicurato che il suo Governo non l’avrebbe ratificata.

Secondo le dichiarazioni di Martín Delgado Cultelli, membro del comitato direttivo del CONACHA, in un’intervista trasmessa a Radio Pedal dell’Uruguay, il governo uruguaiano non ratifica la convenzione per due ragioni: “Per la tradizione dello Stato costruito sulla base di un genocidio caratterizzato dall’occultamento e dalla negazione dei popoli originari” e d’altro lato le “pressioni da parte delle corporazioni rurali” rispetto alla “devoluzione e delimitazione territoriale”. Per quanto riguarda la autoidentificazione razziale, secondo i rapporti dell’Istituto Nazionale di Statistica, nelle Indagini alle Famiglie del 1996 per la prima volta si è chiesto agli intervistati a quale razza o gruppo etnico credevano di appartenere. La percentuale di persone che si sono identificate come indigeni è stata del 0,4% ed è salita al 2,9% nel 2006. Nell’ultimo censimento nazionale del 2011, la percentuale è passata a quasi 5%. Però, fuori dall’ambito delle inchieste, nelle provette degli esperimenti, le percentuali crescono a un ritmo vertiginoso. Le recenti ricerche realizzate dalla professoressa del dipartimento di Antropologia Biologica della Facoltà di Scienze Umane e Scienze dell’Educazione dell’Università della Repubblica, Mónica Sans, apportano dati sorprendenti che spiazzano la costruzione dell’identità nazionale. Sans e la sua equipe hanno studiato principalmente le sequenze di DNA mitocondriale. Dato che i mitocondri sono ereditati unicamente per linea materna, attraverso di essi è possibile tracciare la matrilinearità: “A livello nazionale la percentuale di ascendenza per linea materna risulta pari a circa il 34%, vale a dire, un terzo della popolazione. Le percentuali più alte si trovano al nord del paese, nel dipartimento di Tacuarembó o in località come Bella Unión, dove le percentuali arrivano a circa un 64% di ascendenza indigena”. Inoltre precisa che, sebbene abbiano identificato l’ascendenza indigena, non hanno categorizzato i dati secondo le diverse etnie che si muovevano in Uruguay. “Per ora non siamo arrivati a differenziare le etnie. Nel caso della località di Bella Unión ci sono sequenze (di DNA) di etnie amazzoniche così come alcune guaranì e altre originarie della pampa che sarebbero state in contatto con etnie come la charrúa”.

Come riportato negli archivi storici, i charrúa suonavano trombe o corni, per annunciare che il pericolo si avvicinava. I loro discendenti hanno fabbricato i loro corni e li suonano in tutte le riunioni che realizzano. Interrogata rispetto a come crede che questo abbia conseguenze sull’identità nazionale, Sans ritiene che stia cambiando e aggiunge che già hanno presentato queste questioni nelle scuole per mezzo di studenti di antropologia. “Si sta discutendo anche a partire dall’antropologia sociale, le collettività e i diversi gruppi presenti a livello nazionale”, conclude.

Da parte sua, anche CONACHA sta introducendo la questione nell’ambito educativo attraverso la recente creazione della prima scuola interculturale charrúa itinerante. Il progetto, che conta con un finanziamento del Ministero dello Sviluppo Sociale, ha già avuto esperienze di attività in alcuni quartieri di Montevideo e si prepara a percorrere le varie zone del paese per aumentare il suo impatto.

Genocidio si, genocidio no. La Convenzione per la Prevenzione e la Sanzione del Delitto di Genocidio dell’ONU definisce il genocidio come qualsiasi atto commesso “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”, e include accezioni come l’uccisione di membri di un gruppo, lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, tra le altre. Inoltre, a partire dal 1951, si è trasformato in un crimine perseguibile dal diritto internazionale.

Lo scorso 24 aprile si è realizzato il Congresso dei Ministri aperto, in cui una giovane ha chiesto al presidente Tabaré Vázquez che manifestasse la sua posizione rispetto al “genocidio” della popolazione charrúa. Il presidente ha risposto che condivide la rivendicazione, “però genocidio è un termine che deve essere usato con molta precisione, e bisogna dimostrare che l’intenzione è stata quella di distruggere una razza, un determinato gruppo umano”. E ha aggiunto che non ha una posizione chiara in questo momento, ma il suo Governo sta studiando la questione con “rigore scientifico”. Ciò nonostante, questa polemica espressione appare nel Programma di Educazione Iniziale e Primaria come una delle questioni che si devono trattare nell’area di Storia, in quinta elementare: Le prime presidenze. Il genocidio charrúa. La parola è stata pronunciata anche nel congresso dei rappresentanti, quando la deputata del partito Frente Amplio, Stella Viel, lo scorso 16 luglio ha chiesto che si riconoscesse il genocidio. Da parte sua, la professoressa Mónica Sans si è riferita a questo termine con più sicurezza: “Sí, io credo che è stato un genocidio. Ci fu un’intenzione chiara di uccidere un certo gruppo indigeno. In questo caso possiamo parlare di genocidio e etnocidio.” Nel frattempo, anno dopo anno, vari discendenti si riuniscono a Salsipuedes per ricordare i fatti accaduti. Lo chiamano “luogo di ricongiungimento”. Mentre visitano la località, fanno rivivere attraverso episodi del passato quei loro antenati dal “carattere indomabile” che hanno pagato con la vita il prezzo del pregiudizio in un’imboscata crudele che ha voluto, ma non ha potuto, scrivere per sempre la parola fine per un’etnia.

*El País

Traduzione dallo spagnolo di Francesca Casaliggi

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