DA MIGRANTI A PROFUGHI. Il nuovo dramma dei centroamericani che fuggono dalla violenza in America Centrale e chiedono rifugio in Messico

Emigranti in nell’albergo-ricovero La 72 nel municipio di Tenosique in Messico (Foto Fred Ramos-El Faro)
Emigranti in nell’albergo-ricovero La 72 nel municipio di Tenosique in Messico (Foto Fred Ramos-El Faro)

Lei ricorda che quando si rincontrò con lui, era violaceo, completamente ricoperto di lividi. Attualmente, questi due salvadoregni formano una coppia. Si sono innamorati scappando. E ora sono venuti fino al sud del Messico, attraverso la frontiera boschiva con Guatemala nello Stato di Tabasco, a recuperare un altro salvadoregno che è scappato: il nipote dei lei.

Lei racconta che quando andò a vivere con l’attuale marito nella Città di Guatemala, il suo volto era irriconoscibile, era gonfio e deforme. Un bernoccolo di qua e un livido più in là; aveva ancora una ferita aperta sul sopracciglio che sanguinava.

A lui non lo minacciarono di morte. Lo dettero per morto. Sembrare un cadavere gli salvò la vita. È un salvadoregno grande e grosso di circa 40 anni, con cicatrici su tutto il viso e le braccia. Al principio scappò dal municipio di Apopa, quando la banda “Barrio 18” sequestrò le sue due figlie. Allora, nel 2005, dovette vendere il suo negozio di cereali e pagare più di 10.000 dollari ai malviventi che per di più lo stavano già taglieggiando con 100 dollari mensili per lasciarlo lavorare con la sua bottega. Riscattò le figlie e se ne andò a Acajutla, sulla costa del Salvador. Che però è controllata dalla Mara Salvatrucha e il commercio di cocco che aprì non prosperò mai. Scelse di essere onesto con gli uomini della MS e ammettere che era scappato da una “zona 18”. Quelli della MS 18 purtroppo sospettano di tutti coloro che vengono dalle regioni che si denominano con un diverso numero.

Alla fine, dopo alcuni mesi, lo minacciarono di morte. Volevano che se ne andasse. Fuggì nuovamente, sempre verso l’interno del suo paese. Si spostò appena qualche chilometro verso una spiaggia chiamata Monzón, a Sonsonate. Lì viveva sua madre, sempre in un’area controllata da uomini della MS, ma il fatto di essere “di famiglia” dette a lui e alle sue figlie la copertura per restarci. Anni dopo, nel 2014, ritornando a casa dal lavoro sorprese una delle sue figlie amoreggiando con il nuovo fidanzato, un membro della MS. Non poté sopportare la scena. Discusse con lui e lo cacciò gridando. Quello stesso pomeriggio, quattro membri della banda lo attaccarono fuori da casa sua. Lo malmenarono fino a darlo per morto. Poi lo tirarono in una discarica sulle sponde di un’altra spiaggia chiamata Costa Azul. Una signora vide quella massa rossa muoversi e respirare tra i rifiuti. Lo aiutò a venir fuori. Così, il giorno dopo, mezzo morto, scappò in Guatemala in autobus.

In quel momento lei era solo sua amica: una bella signora passati i 40 anni, con due occhi da gatto color verde che si fanno notare. Lui, dal Guatemala, le raccontò la sua disgrazia. Lei, proprio in quei mesi del 2014, viveva una situazione particolare. Per anni, con la forza, era stata la compagna di un marero di Sonsonate che in quell’anno fu catturato per omicidio. Mentre il processo era in corso fu incarcerato. Lei ne approfittò per scappare. Lasciò quella “vita da schiava” e raggiunse il suo amico in Guatemala.

Quando lo vide, era deforme, pieno di lividi. Insieme continuarono a fuggire verso il Messico. E, dopo aver passato mesi in questo ostello per migranti nella città del sud di Tenosique, entrambi ottennero rifugio e residenza permanente in questo paese. Messico credette alla loro storia, che se fossero stati rimandati in Salvador, entrambi sarebbero stati assassinati. Si innamorarono e ora formano una coppia.

Ma questa è solo parte di una storia che non finisce qui.

Dopo alcuni mesi di carcere, il marero che la sottometteva fu liberato e minacciò di morte il figlio di lei: voleva di nuovo la donna che considerava di sua proprietà. Il figlio seguì la madre. Scappò. Adesso anche lui è rifugiato in Messico. Rimase il nipote e il malvivente lo cercò.

Il nipote è il ragazzo di Acajutla che è arrivato questa notte, quello che oggi sono venuti a salutare da una città del centro del Messico. Sono seduti sotto un porticato nel mezzo dell’ostello, circondati da varie decine di centroamericani che, come loro, non emigrano ma scappano.

Io sono arrivato così come lui. Disorientato, pensando cosa sarebbe stato della mia vita. Però qui si può vivere, vedrai— dice l’uomo al ragazzo appena giunto, e che oggi inizierà la domanda per ottenere lo status di rifugiato.

Un’altra famiglia di persone che fuggono si riunisce in Messico.

Sono gli ultimi profughi che vedrò durante questo viaggio. L’ultimo è appena arrivato.

Sono passati sette giorni da quando ho cominciato questa indagine. In una sola settimana, ho conversato con 29 persone che si sono date alla fuga. Famiglie con neonati, giovani di Honduras, ex guerriglieri, bambine abusate, uomini mutilati. Scappano dalle bande, dalla polizia, dai narcotrafficanti, dai sequestratori. Però, soprattutto, scappano da paesi dove le autorità non possono o non vogliono proteggerli.

Quest’anno, per la prima volta in questo secolo, si calcola che le richieste di rifugio in Messico, raggiungeranno un numero di 5 cifre: 20.000 persone, quasi tutte del Centroamerica del Nord, chiederanno accoglienza per non morire.

Questo è il distillato dell’orrore salvadoregno, onduregno, guatemalteco. Chissà che il modo più rapido di capire che cosa significhi venire da uno dei paesi più violenti del pianeta, sia ascoltando coloro che sono stati vomitati dai loro paesi. Quelli destinati a morire, che sarebbero morti, che si sono salvati da soli, che si accumulano in Messico.

*Giornalista, fondatore della sezione Sala Negra del quotidiano digitale El Faro di El Salvador

El Faro & Univisión Noticias

 Traduzione dallo spagnolo di Silvia Pizio

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