RAGIONANDO SU CHIESA E GLOBALIZZAZIONE CON METHOL FERRÉ (1). Prima parte di un excursus storico latinoamericano proposto dal filosofo uruguayano scomparso nel 2009

Una delle prime cartine geografiche, conservata nella Yale University
Una delle prime cartine geografiche, conservata nella Yale University

Globalizzazione è un termine moderno, entrato nell’uso comune da poco tempo. Le diciannove commissioni in cui si suddivise la seconda Conferenza generale dell’episcopato, a Medellín, nel 1968, avevano coscienza di un’epoca che si chiudeva; ma in quella sede la globalizzazione aveva il volto precipuo “dell’imperialismo internazionale del danaro”, come diranno i vescovi nel documento finale. Per un uso più appropriato del termine globalizzazione occorre attendere la Conferenza di Puebla del 1979. Lì si parla di “sfida globale” in riferimento ad una nuova epoca della storia umana. Nel linguaggio di Puebla il termine globalizzazione è associato ad espressioni quali “nuova universalità” o anche “cultura universale”, quasi sempre percepite come qualcosa di minaccioso che avanza inarrestabile, livellando e uniformando tutto ciò che incontra sul proprio cammino. L’invito a “scrutare i segni dei tempi” lanciato da Papa Wojtyla a Santo Domingo nel 1992, porta i vescovi a vedere nell’“interrelazione planetaria” uno dei tratti principali anche per l’America Latina, e ciò li spingerà ad insistere sul valore positivo dell’integrazione del continente. Ma Santo Domingo è più incline a celebrare i cinque secoli della scoperta ed evangelizzazione dell’America Latina che a capire il nuovo ordine unipolare che si sta consolidando. In questo senso “globalizzazione” resta un termine nuovo per la Chiesa latinoamericana.

E’ un termine che si popolarizza definitivamente negli anni ’90, anche tra gli uomini di Chiesa. Inizia ad acquisire cittadinanza a partire dall’intellettuale cattolico canadese Marshall McLuhan, durante il Concilio Vaticano II, con la sua ben nota e ampiamente commentata prospettiva del “villaggio globale”, formulata nel 1964.

Nel 1992, quando si svolse la Conferenza di Santo Domingo, lo scenario – di fatto – era già globale: il collasso della seconda potenza mondiale, l’URSS, era appena avvenuto, il modello economico neo-liberal-capitalista spadroneggiava ideologicamente incontrastato, la Cina stessa, erede del mondo socialista, assimilava ad un ritmo sempre più sostenuto l’economia di mercato ed apriva le porte ai capitali occidentali… tutto questo era fenomenicamente visibile, ma non si percepiva a fondo la struttura complessa del nuovo scenario mondiale.

Prima dell’89 il termine globalizzazione si colorava, al massimo, di un certo allarme verso un’economia di mercato liberale con pochi freni e ancor meno vincoli.

Con una precisazione: anche allora l’economia di mercato vigeva in una sola parte del pianeta; nell’altra prevaleva il regime di pianificazione centralizzato dello stato. Solo dopo il 1989 il termine globalizzazione può designare con proprietà tutto l’insieme, cioè l’intero pianeta, ed entrare nel linguaggio comune e corrente. Nel 1992, perciò, siamo ancora agli inizi nella circolazione di questo vocabolo.

Però la parola “globalizzazione” designa una realtà che non è affatto così recente.

Il primo movimento globalizzatore è rappresentato dal lungo processo di diffusione della presenza umana sul pianeta durato duecentocinquantamila anni. Si tratta di un fenomeno che va rintracciato ai primordi dell’umanità, con l’homo sapiens che dall’Africa Orientale si sposta a piedi verso il Medio Oriente, poi in Europa e in Asia, quindi attraverso le isole dell’Indonesia, fino all’Australia; quasi contemporaneamente una seconda corrente migratoria arriva a Bering e di lì in America.

E’ la prima globalizzazione mondiale compiuta a piedi, lentamente, nell’arco di decine di migliaia di anni, che la memoria umana priva di scrittura non poté registrare, e perciò fissare nel tempo in termini di cronache ordinate in successione temporale. Solo pochi uomini preposti a questo compito, un élite specializzata in ogni tribù, poterono trattenere qualche pezzo della profondità di 300-400 anni al massimo; ma nella misura in cui il tempo trascorreva la storia conosciuta si sfilacciava fino a perdere pezzi, ossia filamenti di secoli di storia. Finché l’uomo popola tutta la terra e ad un certo punto inventa e perfeziona la scrittura.

La scrittura amplia in forma gigantesca la capacità e l’esattezza della memoria; scrittura e memoria sono il segreto della seconda globalizzazione, questa sì storica e autocosciente. Per inciso: non più a piedi ma sull’oceano. Le navi – vascelli, galeoni, brigantini – convertiranno l’Europa nel centro del mondo.

Da dove partirebbe per far capire, oggi, il lungo movimento che si nasconde dietro il termine globalizzazione?

Da Portogallo e Castiglia. Se la prima globalizzazione, quella a piedi, ha avuto termine nel continente americano, la seconda globalizzazione, quella oceanica, comincia proprio dall’America. Ci possono essere molti altri punti di partenza, ma quello a noi latinoamericani più prossimo è la “scoperta”. Quando gli spagnoli giunsero in queste terre incontrarono l’ecumene Inca e l’ecumene Azteca, due unità con un determinato grado di sviluppo, in un certo senso analogiche all’impero romano, anche se non così avanzate come quest’ultimo. Gli spagnoli, Colombo per primo, toccando terra in queste latitudini, si trovarono davanti delle aggregazioni che unificavano molteplici popoli e svariate lingue, parte di quel movimento teso alla realizzazione dell’ecumene definitiva.

Globalizzazione ed ecumene. Li sta usando come sinonimi?

In un certo senso lo sono; la globalizzazione moderna è la perfezione delle ecumeni antiche, scarsamente o per nulla comunicanti tra di loro, come Europa, Cina, India, Incas, Aztechi. Quei soggetti storici non potevano saperlo perché non avevano un’idea precisa dei limiti del globo. Incas e Aztechi dominavano zone vaste, ai margini delle quali c’erano i “barbari”, gli “incivili”; ignoravano l’esistenza di altre ecumeni; non avevano notizia della Cina, non sapevano nulla dell’Africa, non potevano immaginare l’esistenza di Roma; quindi non potevano che pensarsi come il centro del mondo. Si trattava, cioè, di “isole ecumeniche”, molto vaste in certi casi, ma pur sempre isole.

Cioè la globalizzazione ha la caratteristica singolare di poter essere colta solo a posteriori…

A posteriori, certo. C’è globalizzazione quando un circolo si chiude e diventa impossibile che se ne apra un’altro. Per il pianeta Terra il circolo si è chiuso all’inizio del XX secolo, salvo per i due poli ghiacciati. Da quel momento in poi si deve parlare di una sola ecumene mondiale, oggi ancora divisa in circa duecento entità statali.

Nel XV secolo la Spagna rompe l’accerchiamento musulmano e inizia le grandi navigazioni oceaniche, intraprendendo la rotta verso le Americhe. Sta dicendo che questo è l’inizio della perfezione dell’ecumene, vale a dire della globalizzazione moderna per l’America Latina?

Lo si vedrà con Magellano ed Elcano, un portoghese il primo, un uomo di Castiglia il secondo. Entrambi circumnavigano la terra tra il 1519 e il 1522, quando già si aveva coscienza che la superficie era un globo, anche se ancora non si sapeva bene com’era fatto. Perciò dico che noi latinoamericani siamo all’origine della scoperta del cammino verso l’ecumene totale.

La coscienza unificata del mondo inizia nel secolo XVI e matura nelle grandi filosofie della storia universale del secolo XVIII. Quando Voltaire comincia a scrivere una filosofia della storia mondiale iniziandola con la Cina – perché aveva notizie di questo paese dai gesuiti che vi erano stati – aveva una certa conoscenza dell’Africa, e possedeva informazioni da tutte le latitudini all’epoca conosciute.

Lì cominciano le storie mondiali, e diventa operativa la coscienza di poter trasmettere un messaggio di redenzione all’umanità nel suo insieme; la Chiesa acquisisce una più precisa consapevolezza globale e globalizzante, e ciò pone le condizioni per un ruolo più incisivo nel divenire della storia universale come insieme di visibile e di invisibile.

Quando è avvenuta la chiusura del circolo di cui parla? Quando si può dire che il cerchio è stato chiuso?

Quando Colombo scopre “l’isola America” – perché tale la considerava, un avamposto delle Indie d’Oriente, e morì senza sapere che aveva incontrato un continente diverso – sorge la disputa per la ripartizione del nuovo territorio. In realtà la disputa è anteriore, c’è già nella competizione tra Castiglia e Portogallo per giungere all’altro estremo dell’“isola mondiale”, ossia la Cina e le terre delle spezie. Il trattato di Alcazobas, del 1479, tredici anni prima della scoperta, attua una prima spartizione: la Castiglia riconosce la rotta africana ai portoghesi impegnati nella ricerca del passaggio interoceanico, il Portogallo riconosce alla Castiglia il possesso delle isole Canarie, chiudendo un occhio sul fatto che il sistema di venti e correnti marittime rendevano quelle isole la chiave d’accesso all’America.

Al ritorno dal primo viaggio di Colombo esplode il litigio tra Portogallo e Castiglia, per dirimere il quale i due regni chiedono l’arbitrato del Papa. Ad Alessandro VI rimettono l’interpretazione corretta e definitiva della portata che doveva essere attribuita al trattato di Alcazobas, un po’ come hanno fatto Argentina e Cile nella disputa per il Canale di Beagle, se vogliamo stabilire un’analogia in questo secolo.

Come si può osservare scoperta, disputa, spartizione sono azioni quasi simultanee. Quel che è interessante notare è che la prima divisione del globo terracqueo la realizza la Chiesa, con una Bolla papale che impone a Portogallo e Castiglia di dirimere il conflitto d’interpretazione del Patto di Alcazobas, cioè dove iniziasse la zona d’influenza spagnola, che era ancora oceanica, e dove quella portoghese. La “Intercaetera” di Alessandro VI segna la prima spartizione globale di uno spazio che tuttavia non era stato ben esplorato, ma che si sapeva appartenere ad un globo finito. Traccia, cioè, una divisione mondiale del pianeta: stabilisce quel che appartiene al Portogallo e quel che appartiene alla Spagna. Lo possiamo anche considerare il primo arbitrato planetario. Le due potenze marittime dell’epoca lo accettano; poi lo metteranno in discussione e lo modificheranno a Tordesillas, spingendo i nuovi limiti a quello che finirà con il diventare il Brasile attuale, che nasce come una stazione-porto dell’avventura asiatica del Portogallo verso l’Asia, ma all’inizio accettano e si sottomettono al dettame della Chiesa.

Quindi Castiglia e Portogallo, gli italiani di Genova e di Firenze, Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci… sono il simbolo dell’inizio dell’ecumene definitiva?

Quando si scopre che la terra è effettivamente quello che alcuni avevano intuito: un globo chiuso. Da quel momento non sarà più possibile espandere l’ecumene, salvo nell’ipotesi di colonizzare altri pianeti simili al nostro.

La seconda globalizzazione, quella “cosciente” come lei la qualifica, chiude un circolo.

E permette che si possa designare come mondiale quella che, nel 1914, in realtà era una guerra fondamentalmente europea. La seconda, nel 1939, fu molto più mondiale, perché coinvolse teatri asiatici e africani che la prima guerra praticamente non toccò. La terza guerra mondiale, la cosiddetta guerra fredda, fu tra potenze non più solo europee.

La bipolarità implicava il mondo globale, due poli in un solo mondo, ma dove la prevalenza era duale. Mentre dopo il 1989, con la fine della bipolarità, si realizza la globalizzazione all’insegna di una unità relativamente omogenea del mondo, con il suo centro principale negli Stati Uniti. (Prima parte).

Da: Alberto Methol Ferré-Alver Metalli, Il Papa e il Filosofo, Cantagalli, Siena 2013. Edizione precedente: L’America Latina del XXI secolo, Torino, Marietti, 2006

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