LA RIBELLIONE DELLE VITTIME. Stanca di essere la riserva di caccia di una delle “maras”, una comunità di pescatori di El Salvador ha deciso di imbracciare le armi per difendersi

Legittima difesa (Foto Jessica Orellana)
Legittima difesa (Foto Jessica Orellana)

Dalla zona più oscura dell’estuario brilla la luce di una lanterna. Prende di sorpresa tutti, meno Juan che senza lasciar passare un secondo mette il dito sul grilletto della sua pistola e ordina: “Presto, presto!”. Due uomini avanzano, altri due si gettano a terra con i fucili imbracciati. Prendono la mira, restano immobili mentre la luce giallognola avanza lentamente, lentamente, sopra una lancia; la guardano fisso, trattengono il respiro e… falso allarme: è un loro vicino che ha deciso di uscire a pescare in questa notte in cui la Luna immensa appesa nel cielo illumina tutto. Gli integranti del gruppo di autodifesa della comunità di pescatori ridono nervosi. Si vergognano di essersi affrettati. Accendono sigarette.

La comunità – il cui nome non può essere reso noto per ragioni di sicurezza – ha ottenuto quello che quasi nessuno in El Salvador è riuscito a fare: ribellarsi contro le bande e vincerle. La loro audacia è straordinaria in un paese soggiogato dalla paura. Si trova alla fine di una strada costiera condivisa dai dipartimenti di La Paz, San Vicente e Usulután, a circa 60 chilometri al sudest di questa capitale. Ha un servizio pubblico di illuminazione, e la maggioranza delle case sono fatte di canne, lamine metalliche ossidate, cartone e plastica. Ai bordi della strada si aggirano cani randagi e maiali.

Ora di dare battaglia. Durante più di cinque anni la banda “Barrio 18” ha occupato la zona come uno dei suoi nascondigli per stuprare, torturare e uccidere le sue vittime, così come per addestrare militarmente i suoi membri. Sulla corteccia degli alberi ci sono ancora i segni delle pallottole. Si trovano anche i numeri “18” incisi con oggetti appuntiti. La banda ha perso questo feudo il giorno in cui hanno telefonato a Juan e hanno preteso 5 mila dollari per non ucciderlo. Lui è uno come gli altri nella comunità. Vive della pesca e della raccolta dei molluschi. Guadagna da due a tre dollari al giorno e con questi mantiene sua moglie e i suoi figli. Mai in vita sua aveva visto tanti soldi tutti insieme. Come poteva trovarli dalla sera alla mattina? Uno dei suoi amici gli consigliò di rifiutarsi di pagare il riscatto. Un terzo si dichiarò dello stesso parere. Il quarto finì per convincerlo. I quattro decisero che era arrivato il momento di dare battaglia.  

“Vedi come soffre la gente e non resta altra strada che difendersi”, dichiara Jorge, uno dei fondatori dell’autodifesa. Denunciarono le minacce alla Polizia Nazionale Civile (PNC), che tese una trappola ai criminali. Ci furono alcuni arresti e tre membri della banda morirono in una sparatoria. Successe in novembre del 2015. La banda risultò indebolita. Juan e i suoi tre compagni decisero che era il momento di armarsi ed espellere i pochi membri della banda che erano sopravvissuti. Ricordò le tattiche di combattimento che aveva imparato da soldato, nel battaglione Atonal – un gruppo militare scelto che funzionò negli anni ottanta – e le applicò. Sapeva che la banda non dimentica mai, e così decise di non abbassare mai più la guardia.

Nacque così il gruppo di Autodifesa dei Pescatori.

Durante un mese pattugliarono tutte le notti. All’alba andavano a lavorare senza dormire. La stanchezza li indebolì. Decisero di raccontare ai leaders del comune il rischioso compito che avevano intrapreso. Temevano che li consegnassero alla PNC perché nel paese è proibita l’esistenza di gruppi di civili armati. Ma successe tutto il contrario: li appoggiarono. Ciascuna delle 196 famiglie designò uno degli uomini della casa per partecipare ai pattugliamenti notturni. Diedero soldi per comprare armi. Allestirono un punto di controllo all’ingresso della comunità. I fondatori insegnarono ai nuovi membri a sparare e a mantenere i nervi calmi. Si avvicinarono inoltre a poliziotti e soldati di fiducia per dire loro che a partire da quel giorno la comunità si sarebbe protetta da sola, e che solo li aiutassero a mantenere sotto vigilanza gli otto chilometri all’intorno.

Il rapporto con i poliziotti e i soldati della zona è segreto. Si appoggiano a vicenda, comunicano tra loro, condividono informazioni.

Carlos solleva il passamontagna fino a metà faccia. Sorride e aspira il fumo della sigaretta. Lo soffia fuori con forza per scacciare le zanzare. Gli si gonfia il petto di orgoglio quando spiega che fino a circa dodici mesi prima nessuno dei 655 abitanti si sarebbe sognato di uscire di casa dopo le sette di sera. Perché? La cosa più sicura è che lo avrebbero catturato e ucciso. Mentre la conversazione prosegue, un’anziana prepara ‘pupusas’ su una piastra di argilla scaldata a legna, alcuni bambini giocano a calcio sulla strada con una palla di plastica e tre vecchi scalzi parlano tra loro seduti sulla sabbia. Sembra una scena idilliaca. Sono le 10 di sera e questo succede in El Salvador.

Violenza scatenata. L’autodifesa misura le sue forze contro quelle di un mostro a cui lo Stato attribuisce la paternità di omicidi brutali come, per esempio, quello di Omar Alexander Flores – lapidato perché si era addormentato su un autobus e quando si svegliò era entrato senza permesso nel territorio del Barrio 18 – o quello di Kevin Gómez, a cui la Mara Salvatrucha strappò il cuore.

Il piccolo paese centroamericano ha sopportato negli anni ottanta una delle guerre più crudeli dell’America Latina. Migliaia di salvadoregni che scappavano dalla violenza entrarono indocumentati negli Stati Uniti. Nel decennio che seguì molti furono deportati. Alcuni facevano parte di qualche banda e al ritornare nella loro terra trovarono un terreno fertile: impunità, povertà, disoccupazione, disuguaglianza sociale estrema, corruzione politica e impresariale.

Nel 2003 l’allora presidente Francisco Flores applicò politiche di mano dura contro le bande. Il suo successore, Elías Antonio Saca, le incrementò. Centinaia e centinaia di persone sospette furono incarcerate in istituti di pena e suddivise secondo l’appartenenza alla banda. La reclusione le radicalizzò.

Nel 2012 il governo di Mauricio Funes organizzò la tregua tra bande che, come risultato principale, diminuì il numero degli omicidi: da 4 mila 371 cittadini uccisi violentemente nel 2011 a 2 mila 513 nel 2013.

Ciò nonostante, alla fine del 2014 e all’inizio del 2015 la tregua terminò bruscamente e la violenza si scatenò a un livello che mai era stato raggiunto dopo la firma degli Accordi di Pace, nel gennaio del 1992. L’anno scorso sono morti violentemente 6 mila 650 salvadoregni. È un tasso di 103 omicidi ogni 100 mila abitanti; superiore a quello di Honduras, che nel 2014 è stato il paese più violento del mondo intero.

Terminata la tregua, le bande dimostrarono che avevano imparato a strumentalizzare la violenza, a gestirla per ottenere vantaggi politici, per ricattare. Intensificarono il loro dominio su colonie, quartieri e comunità. Tre anni fa la Banca Mondiale e il Ministero della Sicurezza in una ricerca arrivarono alle conclusioni che più di 500 mila salvadoregni hanno qualche grado di parentela o un legame criminale con gli oltre 30 mila membri della banda 18 o la MS-13. In 1765 colonie, per esempio, operano 1955 piccole cellule che nel linguaggio ufficiale sono denominate “clicas”. Nel 2008 c’erano circa 400 “clicas”. Cinque anni dopo, quasi 2 mila.

Le bande sono un elemento che fa parte della quotidianità della maggioranza delle comunità povere. Nelle zone in cui s’insediano decidono della vita delle persone che vi abitano, stabiliscono i confini, reclutano nuovi delinquenti per la guerra, si prendono le ragazzine che sono di loro gusto. Un paio di settimane fa la banda ha cercato di recuperare il territorio perduto, ma i pescatori hanno resistito. Avevano recuperato la loro libertà e non erano disposti a cederla.

Vuoto legale. La libertà, però, non è assoluta. Juan, per esempio, non può uscire dalla comunità da solo. La sua testa ha un prezzo. Tutto questo lo ha raccontato alla sua famiglia. Non vuole sorprese il giorno in cui una pallottola lo raggiunga. “Sappiamo che in un momento o l’altro ci faranno: pum, pum, pum!”, dice rassegnato. È soddisfatto, però, di sapere che l’autodifesa a cui appartiene non è l’unica della zona. Ce ne sono altre cinque che si muovono nella clandestinità. Sorvegliano insieme.

In aprile del 2016 il vicepresidente salvadoregno Oscar Ortiz ha detto che il governo stava programmando la creazione di gruppi di cittadini sotto il controllo dello Stato. Una settimana dopo Guillermo Gallegos, del partito di destra Grande Alleanza per la Unità Nazionale, ha presentato all’Assemblea Legislativa il progetto Legge Speciale del Corpo di Difese Comunali, il cui articolo 9 avalla “che i cittadini che fanno parte di tale gruppo possano portare armi in modo permanente nella comunità per la salvaguardia della loro vita, della loro integrità, di quella degli altri abitanti e dei loro beni”.

L’Alleanza Repubblicana Nazionalista, il principale partito di opposizione, l’ha respinta perché, secondo il deputato René Portillo Cuadra, armare cittadini è praticamente uguale ad iniziare un’altra guerra. Il Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale, il partito che è nato dalla ormai estinta insurrezione guerrigliera degli anni ottanta, ha detto che era meglio studiare più a fondo le proposte. José Luis Escobar Alas, principale autorità della Chiesa cattolica salvadoregna, l’ha rifiutata: “Siamo in una situazione critica, disperata e si può credere che la violenza finirà attraverso una via d’uscita facile”. Il progetto è rimasto lì archiviato. E niente più.

Alla fine del 1994 nella parte orientale del paese un gruppo di ex soldati fondò un gruppo di sterminio che si auto denominò l’Ombra Nera; uccideva a manbassa coloro che allora erano neofiti capobanda, o membri delle bande che assaltavano, minacciava giudici e difensori dei diritti umani. Era finanziata da personaggi noti nel paese, come Will Salgado, che più tardi diventò un sindaco importante, o César Valdemar Flores Murillo, allora capo della delegazione della PNC a San Miguel.

In quei giorni raggiunse una grande notorietà a causa dei comunicati scritti in tono rivendicativo in cui si presentava come il difensore dei poveri. La sua leggenda crebbe tanto che quando i suoi membri furono fatti sedere sul banco degli accusati, molte figure pubbliche presero le loro difese, giustificando i loro omicidi.

Circa 22 anni più tardi i gruppi di sterminio sono riapparsi. Hanno riciclato il ruolo di difensori dei poveri. A San Miguel sono apparsi cadaveri con messaggi scritti sui loro corpi: “Questo succede a chi fa parte delle maras”. Sono anche proliferate le storie di uomini con i volti coperti da passamontagna che, con una lista in mano, fanno giustizia per conto loro. A questo va aggiunta la guerra tra le bande e lo Stato che ha fatto crescere gli indici di violenza. A metà anno la Procura dei Diritti Umani ha annunciato che sta investigando oltre 100 casi di presunte esecuzioni extragiudiziarie commesse da soldati e poliziotti.

Negli ultimi 23 mesi sono stati assassinati più di 105 poliziotti e la PNC registra 556 banditi uccisi in presunte sparatorie contro agenti di polizia.

Juan difende la PNC. Sottolinea, inoltre, che tra i gruppi di sterminio e le autodifese c’è una differenza abissale: lui e i suoi compagni non fanno giustizia con le loro mani e neanche uccidono per denaro, ma solo si difendono. Per questo assicura che i cittadini sono pronti ad armarsi e a ribellarsi contro la violenza delle bande. Per evitare abusi basta una legge che li legalizzi e che lo Stato li sorvegli.

“Chiediamo ai politici che si mettano nei nostri panni. Soffriamo molto, loro non hanno idea di quello che soffriamo”, conclude Juan.

*Proceso

Traduzione dallo spagnolo di Francesca Casaliggi

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