LA RIVOLTA DEI CRISTEROS MESSICANI COMPIE 90 ANNI. Ad ottobre il Papa canonizzerà un suo figlio, Sánchez del Río. Un libro ricostruisce il ruolo della diplomazia vaticana

Il famoso generale dei Cristeros Gorostieta. Nel riquadro il libro di Paolo Valvo
Il famoso generale dei Cristeros Gorostieta. Nel riquadro il libro di Paolo Valvo

Il 2016 è stato un anno denso di eventi e di ricorrenze di grande significato per la Chiesa messicana. Impossibile non ricordare innanzitutto l’impatto che la visita di papa Francesco, lo scorso febbraio, ha avuto sull’intero Paese, tra folle immense – come quelle che lo hanno accolto nelle strade della capitale e nello stadio di Ecatepec – e momenti più raccolti come quelli passati davanti alla tilma della Virgen morenita nel santuario di Guadalupe e quelli trascorsi con le comunità indigene in Chiapas. Ai commentatori più attenti non è sfuggito un altro aspetto storico del viaggio papale, ovvero l’accoglienza riservata a Francesco dalle principali autorità del Paese nel Palacio Nacional. Non era mai accaduto, infatti, né durante il viaggio di Benedetto XVI del 2012 né durante i cinque precedenti viaggi di Giovanni Paolo II, che un pontefice venisse ricevuto nel tempio per eccellenza del laicismo costituzionale messicano. Una cosa del genere sarebbe stata semplicemente impensabile nel Messico di Plutarco Elías Calles, sotto la cui presidenza (1924-1928) il conflitto pluridecennale tra lo Stato e la Chiesa raggiunse livelli impensabili, fino a sfociare in un confronto armato, del cui inizio proprio quest’anno ricorre il novantesimo anniversario.

Gli anni Venti del secolo scorso vedono i cattolici messicani, già duramente provati dalle lotte rivoluzionarie del decennio precedente, subire un’aspra persecuzione fondata sull’applicazione intransigente della Costituzione di Querétaro del 1917, che priva di ogni riconoscimento legale la Chiesa costringendo sacerdoti e fedeli a sottostare a norme draconiane. Di fronte a questa situazione – e in seguito a una escalation di tensione che vede il governo allontanare dal Messico ben tre delegati apostolici e farsi promotore addirittura di uno scisma, da cui nel 1925 nasce la sedicente “Chiesa Cattolica Apostolica Messicana” – i vescovi decidono di dare vita a una forma clamorosa di protesta, proclamando uno sciopero del culto in tutto il Paese a decorrere dal 31 luglio 1926. È la scintilla che dà avvio in forma prima spontanea e poi sempre più organizzata alla guerra cristera (o Cristiada), che deve il suo nome al grido di battaglia “¡Viva Cristo Rey!” dei ribelli sollevatisi in armi contro il governo, chiamati spregiativamente cristosreyes e successivamente cristeros. La guerra, destinata a lasciare sul terreno oltre centomila morti (stima che tiene conto dei soli caduti sul campo), si concluderà nel giugno del 1929 con un accordo tra l’episcopato e il governo, destinato a rimanere in gran parte sulla carta. Per la Chiesa messicana sono anni di vero e proprio martirio: al già ampio elenco di santi e beati uccisi in odio alla fede in quelle circostanze drammatiche si aggiunge il nome del giovane José Luis Sánchez del Río (1913-1928), che verrà canonizzato il prossimo 16 ottobre.

Novant’anni dopo quei fatti, la guerra cristera è oggi al centro del libro che Paolo Valvo ha da poco pubblicato per i tipi di Morcelliana, Pio XI e la Cristiada. Fede, guerra e diplomazia in Messico (1926-1929). A partire da una ricerca condotta principalmente negli archivi vaticani, l’autore prova a rispondere a una domanda che per molto tempo ha aleggiato sulla storiografia della Cristiada, ovvero: che cosa pensava il papa di allora, il brianzolo Achille Ratti (Pio XI, 1922-1939), della guerra combattuta in Messico in nome di Cristo Re? Si tratta di una questione assai delicata, dalla quale sorgono come a cascata altre domande: quando e a quali condizioni è lecito per un cristiano ribellarsi contro l’autorità civile? Fino a che punto si può scendere a patti con un potere apertamente ostile alla fede? Quali sono le priorità della Chiesa in tempo di persecuzione? Domande che, a ben guardare, continuano a interrogare anche oggi credenti e non credenti, in un mondo dove la persecuzione contro la Chiesa – come più volte affermato da papa Francesco – continua ed è, se vogliamo, ancora più aspra che nei tempi apostolici. Senza avventurarsi in parallelismi fuorvianti, la ricostruzione del conflitto religioso messicano proposta nel libro può offrire elementi utili per una riflessione ad ampio spettro.

Le linee di fondo della politica vaticana durante la Cristiada appaiono il frutto di una lunga e difficile mediazione tra le numerose sensibilità – spesso in aperto conflitto – presenti nel cattolicesimo messicano e nella Curia romana. Pio XI, in particolare, non sembra disdegnare all’inizio della guerra alcune delle posizioni sostenute dai vescovi più intransigenti. Alla distanza, d’altra parte, quello che prevale nella riflessione e nell’azione del papa di Desio è un realismo di fondo, che se da una parte lo rende fermo nel condannare le leggi messicane in contrasto «con i diritti di Dio e della Chiesa», dall’altra lo porta a riconoscere il ripristino del culto nelle chiese come la necessità più urgente, dopo tre anni di interruzione forzata. Pio XI, per questa ragione, sembra lontano da certi clichés cucitigli addosso da una vulgata che lo ha spesso dipinto come un campione dell’intransigenza “senza se e senza ma”. La figura che emerge dalla ricostruzione di Valvo è piuttosto quella di un pastore che, pur con i limiti dettati da un temperamento tendenzialmente autoritario, cerca di non trascurare nessuna delle tante parti del suo gregge. L’esigenza di trovare un compromesso con il governo messicano, ad esempio, non si traduce mai in una sconfessione della scelta di prendere le armi condivisa da molti cattolici, di cui il papa in più occasioni mostra di comprendere le ragioni. Tutto questo però non gli impedisce di fissare e di perseguire – soprattutto negli anni Trenta – un’agenda che, senza mai dimenticare il diritto/dovere dei cittadini di opporsi a leggi oggettivamente ingiuste, si concentra anche (per certi versi soprattutto) sulla purificazione della Chiesa dal suo interno. Senza sacerdoti santi e senza un laicato all’altezza delle sfide dei tempi, sembra dire Pio XI, anche un’opposizione doverosa sul piano civico e politico rischia di divenire sterile.

In ogni caso «deve ammettersi», afferma il papa nella sua ultima enciclica “messicana” (la Firmissimam constantiam del 1937), «che la vita cristiana, per svolgersi, ha bisogno pure di ricorrere a mezzi esterni e sensibili; che la Chiesa, essendo una società di uomini, richiede, rispetto alla naturale esigenza della vita e del suo necessario incremento, una legittima libertà d’azione, e che i suoi fedeli hanno diritto di trovare nella società civile possibilità di vivere in conformità ai dettami della loro coscienza». Considerazioni, queste di Achille Ratti, che inseriscono la vicenda messicana nella più ampia riflessione sul tema della libertà religiosa, destinata a trovare il suo compimento nel Concilio Vaticano II.

Attraverso la Cristiada, per altro verso, la Chiesa latinoamericana gioca forse per la prima volta un ruolo da assoluto protagonista sullo scenario del cattolicesimo universale, quarant’anni prima dell’insorgere della Teologia della liberazione. È impressionante infatti l’eco e il conseguente sforzo di mobilitazione che la persecuzione anticlericale in Messico suscita in tanti Paesi, sia americani sia europei. Dal Québec al Belgio, dagli Stati Uniti alla Germania e all’Italia figure come quella del gesuita Miguel Agustín Pro – accusato ingiustamente di aver preso parte a un attentato contro l’ex presidente Álvaro Obregón e fucilato per questo nel novembre del 1927 – diventano patrimonio comune dell’intera cattolicità, segnando fortemente l’immaginario collettivo del cattolicesimo novecentesco. In questa internazionalizzazione del conflitto religioso la diplomazia della Santa Sede, come mostra il volume di Paolo Valvo, svolge un ruolo decisivo. Di fronte a una guerra che Pio XI non ha mai inteso fomentare (e sulla cui legittimità morale egli stesso, prudentemente, non si esprime in pubblico, lasciando sul tema libertà di coscienza), la diplomazia diventa pur con tutti i suoi limiti lo strumento irrinunciabile per preservare il bene supremo della Chiesa messicana, ovvero la fede del popolo, specialmente in quelle aree del Paese dove la sospensione dei servizi religiosi fa sentire di più i suoi effetti deleteri. In che misura il papa sia riuscito a raggiungere questo obiettivo, è un punto sul quale si potrà continuare a discutere a lungo. Che la fede del popolo messicano sia stata la sua bussola durante la tempesta della persecuzione anticlericale, è invece un punto fermo che le carte vaticane possono ampiamente documentare.

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