QUEL “PEZZETTINO DI GUERRA” TUTTO MESSICANO. L’espressione l’ha usata Papa Francesco iniziando il dialogo con la popolazione messicana, per ora a distanza

Una donna mostra il ritratto del figlio scomparso. Dal 2006 gli scomparsi in Messico sono almeno 27.000
Una donna mostra il ritratto del figlio scomparso. Dal 2006 gli scomparsi in Messico sono almeno 27.000

Lo scriviamo a malincuore perché si potrebbe capire male, ma è così, proprio così: il Messico, da molti anni, è un Paese in guerra perché al suo interno è cresciuto, e si è ingigantito sempre di più, uno “stato” dentro dello Stato: la narcoguerra, i cui tentacoli – dal 1989 – raggiungono in modo capillare ogni angolo, poteri, istituzioni e tessuto sociale della seconda Nazione più popolata della regione latinoamericana. Decine di cartelli, piccoli quanto una banda di quartieri e grandi quanto una holding o corporation, sfruttano ogni cosa possibile per fare soldi, affermare il proprio dominio, ricattare e condizionare, per imporre un potere parallelo a quello della Repubblica e delle sue leggi. Papa Francesco per cinque giorni sarà il protagonista in questo scenario e milioni di messicani attendono da mesi, con affetto e speranza, la sua parola, la sua voce, i suoi gesti e le sue esortazioni. Andando in Repubblica Centrafricana nel novembre scorso Francesco si trovò nel cuore di una Paese dilaniato da una guerra aperta. Ora andando in Messico si troverà nel cuore di una guerra mascherata. E questo, a più riprese, lo hanno detto i vescovi messicani come singoli ordinari diocesani ma anche come Conferenza episcopale, e non molto tempo fa, hanno urlato: “Basta!”. Il Santo Padre, non senza polemiche pretestuose, parlò mesi fa di “messicanizzazione” con riferimento ai pericoli in agguato nel caso dell’Argentina e di tutta l’America Latina. Basterebbe uno sguardo a una sintesi dell’ultimo Rapporto dell’agenzia antidroga americana DEA (Drug Enforcement Administration), che traccia la mappa della “messicanizzazione”, per comprendere a fondo il senso della preoccupazione del Pontefice.

In Messico, la narcoguerra, da oltre 26 anni ha fatto sprofondare il Paese in una spirale di violenze di ogni tipo e oggi si fa fatica a distinguere fra le malefatte del crimine organizzato, spicciolo e industriale, e i comportamenti delle forze dell’ordine. In alcuni regioni del Paese la corruzione ha fatto scomparire il confine tra le forze in campo e non sempre si è sicuri, davanti a una divisa, di avere a che fare con un leale e onesto servitore dello Stato. Questa incertezza è uno degli aspetti più inquietanti che affronta oggi ogni messicano. La narcoguerra ha bisogno di connivenze e impunità (che i vescovi hanno definito “violenze invisibili”) e dunque non si fa scrupoli se deve usare una parte ingente del denaro criminale dei suoi traffici (droga, persone, armi) per corrompere politici, amministratori, forze dell’ordine, forze armate, professionisti.

E’ vero che lo Stato e le sue autorità fanno di tutto per contrastare questa spirale, a volte con successi notevoli, ma sostanzialmente la penetrazione subdola del crimine organizzato nei gangli dell’amministrazione pubblica spesso rende vano questo sforzo e, al contempo sono subentrati in buona parte dell’opinione pubblica messicana, sentimenti fatalisti di assuefazione e di scoraggiamento, al punto che non poche volte il crimine è visto come normale e scontato. Anche quando si tratta di esperienze orrende come le “scomparse”. Domenica 31 gennaio il settimanale “Desde la fe” dell’arcidiocesi di Ciudad del Messico ha scritto: “Ci sono messicani scomparsi, bambini, giovani e adulti, sequestrati nelle loro case” e poi citando un rapporto ONU ha sottolineato che tra 2006 e il 2014 oltre 6mila bambini e adolescenti al di sotto dei 18 anni sono stati sequestrati da bande del crimine organizzato”. Dal 2006 gli scomparsi in Messico sono almeno 27.000 secondo i dati incrociati di numerose istituzioni indipendenti ma anche di organismi internazionali che sorvegliano il rispetto dei diritti umani. Tra questi ci sono i 43 giovani studenti della Escuela Normal Rural de Ayotzinapa, sequestrati il 27 settembre 2014, e sui quali sino ad oggi non è ancor stata fatta giustizia. L’attacco sarebbe stato ordinato dall’ormai ex sindaco di Iguala, José Luis Abarca Velázquez, per timore che gli studenti potessero interrompere un discorso tenuto dalla moglie, nota per i suoi legami alla criminalità organizzata. Abarca Velázquez e la moglie sono latitanti, mentre 56 persone, tra cui poliziotti di Iguala e della vicina città di Cocula, e il presunto leader di Guerreros Unidos, sono state arrestate. Questo terribile e odioso crimine ha un movente preciso denunciato dallo stesso Presidente Barack Obama dieci giorni prima della strage voluta dal narcotraffico che controlla ampi territori del Messico: le piantagioni di papavero d’oppio, che crescono per un 98% nello stato di Guerrero. Il Capo della Casa Bianca disse che “il principale fornitore degli Stati Uniti di derivati dell’oppio è il Messico”. Inoltre ha ricordato che negli ultimi 4 anni il sequestro di eroina nel confine con il Messico era cresciuto del 324%.

Cosa si fa per fermare la spirale della delinquenza messicana? Il Messico fa quello che può, ma spesso i modesti risultati sono neutralizzati da una gigantesca corruzione ambientale radicata in tutti i livelli, che vanifica ogni sforzo delle autorità oneste. Intanto la comunità internazionale è sostanzialmente latitante. Il segretario generale della Conferenza episcopale, l’ausiliare dell’arcidiocesi di Puebla de los Angeles, mons. Eugenio Andrés Lira Rugarcía, ha rivolto alle autorità un pressante appello a proseguire la ricerca degli studenti dispersi e a punire i colpevoli. “Queste cose — ha detto — non possono continuare ad accadere in Messico, non si può tollerare una situazione dove ci sono persone che scompaiono. Dobbiamo camminare insieme, come società e Paese sicuro, dove si riesca a vivere in pace”. Poi, come ricorda l’Osservatore Romano, Lira Rugarcía ha espresso solidarietà alle famiglie delle vittime e ha sottolineato che “tale situazione deve preoccupare tutti, perché quando non si rispetta il diritto di uno solo, si mette a rischio il diritto di tutti”.

Nei giorni scorsi, dopo la scoperta di fosse comuni clandestine nei dintorni di Iguala, sulla vicenda sono intervenuti anche i vescovi delle diocesi che formano la provincia ecclesiastica di Acapulco: “Siamo stupefatti e preoccupati per il modo in cui le forze di polizia si sono comportate in questo caso. Vogliamo esprimere il nostro dolore sia per gli studenti morti che per quelli dispersi, oltre alla nostra disapprovazione circa il comportamento delle forze di polizia in questo caso”.

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