LA DIPLOMAZIA DEL PAPA. CUBA 6. Il metodo Francesco

Foto Desmon Boylan AP | Composizione di Emiliano Ignacio Rodriguez.
Foto Desmon Boylan AP | Composizione di Emiliano Ignacio Rodriguez.

Ancora una volta è l’imprevedibile Dionisio, la vecchia volpe della diplomazia, a fornirmi la chiave per decifrare il messaggio: «Il ruolo recitato da papa Francesco nel disgelo tra USA e Cuba non è molto diverso da quello che giocò Giovanni XXIII, da lui fatto santo, che riuscì a spingere il presidente americano John Kennedy e il capo dell’Unione Sovietica, Nikita Chruščëv, a fermare il conto alla rovescia della crisi dei missili a Cuba». Il riferimento, ovviamente, è all’installazione di rampe missilistiche sovietiche a Cuba e alla ritorsione del blocco navale americano che, nel 1962, portarono il mondo a un passo dalla terza guerra mondiale.

In quella vicenda, nessuno storico può affermare che Giovanni XXIII ha fermato le armi, eppure – spiega Dionisio, che all’epoca non era lontano da Cuba – «lui fu decisivo, perché con il suo intervento interruppe il conto alla rovescia. È come fermare due litiganti un momento prima che estraggano le armi. Uno stop che serve a far abbassare la temperatura e i toni».

L’incognita adesso è sul futuro. «Rompere con l’ipocrisia americana – insiste Dionisio – avrà effetti imprevedibili nel breve e nel lungo termine. In ogni caso, gli USA non ci perderanno. Perché l’ora di Fidel sta per suonare, e senza lui tra i piedi diventerà tutto più facile. Semmai il problema sarà quello di non “annettere” l’Avana a Washington, facendola diventare quello che per gli investitori americani è oggi Panama, o le Cayman.»

Non sono solo i politici a dover superare ruggini personali. Anche la Chiesa ha dovuto vivere sul braciere di un regime impietoso. Negli anni ’70 le persecuzioni religiose erano state feroci. Castro era arrivato al punto di abolire il Natale, considerato una festa imperialista. Anche l’avvicinamento del castrismo alla Chiesa va inquadrato nella “ristrutturazione generale” seguita alla disgregazione dell’Urss. Cuba, isolata sul piano internazionale, cercava nuovi alleati, anche a costo di rivolgersi agli ex nemici. Giovanni Paolo II accolse l’apertura, ma in senso critico. Durante la sua visita parlò della necessità di «garantire la libertà» – non solo quella religiosa – e, allo stesso tempo, denunciò l’ingiustizia dell’embargo che gravava soprattutto sul popolo.

Il primo segno concreto del recente disgelo è stata la liberazione, in quello stesso 17 dicembre 2014, dell’ingegnere americano Alan Gross dalla prigione cubana in cui era detenuto da cinque anni. Gross era stato arrestato nel 2009 all’Avana con l’accusa di spionaggio. Le condizioni fisiche e psicologiche del 65enne ebreo americano erano andate deteriorandosi negli ultimi tempi. Nel mese di aprile 2014, Gross aveva persino iniziato uno sciopero della fame.

La sua scarcerazione rientra in uno scambio di prigionieri. Le autorità dell’Avana hanno rilasciato anche un agente segreto americano detenuto a Cuba da più di vent’anni e la cui identità non è stata resa nota. Anche questa liberazione è stata letta come un’espressione di buona volontà. Gli statunitensi, da parte loro, hanno liberato tre 007 cubani arrestati nel 2001 con l’accusa di spionaggio. I tre fanno parte dei “Cuban Five”, un gruppo di cinque ufficiali dei servizi segreti appartenenti al cosiddetto “Wasp Network”, che raccoglieva informazioni riservate su importanti leader cubano-americani in esilio e sulle basi militari USA.

Un’opinione particolarmente autorevole sull’accordo USA-Cuba e sui suoi “retroscena vaticani” viene dal cardinale Jaime Lucas Ortega y Alamino, che dell’Avana è arcivescovo. «Se a Cuba c’è stato questo accordo diplomatico molto ben fatto, molto ben riuscito – ha spiegato il cardinale Ortega il 9 febbraio 2015, in occasione della messa per i 47 anni della Comunità di Sant’Egidio – è stato perché tutti hanno avuto una volontà di dialogo superando tutte le difficoltà, le critiche, le resistenze. Così direi che il miracolo non avviene di per sé ma il miracolo è la possibilità di fare un cammino e riuscire a condurlo verso un buon risultato. Il miracolo è nel cammino».

Anche se tutti ormai sapevano di un intervento diretto di papa Francesco nella vicenda, ciò che traspare dalle parole di Ortega va ben oltre un semplice coinvolgimento: «Lui è intervenuto in un modo molto tipico del Santo Padre, come il pastore universale che chiede la pace nel mondo, che chiede la vicinanza di coloro che sono di fronte ma non hanno amicizia, sono in guerra. È intervenuto in un modo molto diretto, ma il modo alla fin fine non è essenziale, lo è l’esito che ha avuto… Lui ha avuto un ruolo forte nel riuscire ad avere questo dialogo e questo risultato diplomatico, un ruolo, direi anzi, fondamentale».

Un funzionario di solito bene informato è Eduardo Valdes, ambasciatore argentino presso la Santa Sede. Del papa ha detto: “Le sue posizioni geopolitiche, la sua visione delle problematiche, lo rendono un uomo di permanente consultazione da parte di tanti statisti. ‘Francisco’ abbatte muri e crea ponti”.

C’è una domanda che per i primi due anni di pontificato è rimasta senza risposte: dove vuole arrivare papa Francesco?

La risposta, infine, l’ha data il diretto interessato, il 10 aprile 2015, con un messaggio indirizzato al VII Vertice delle Americhe che ha sancito ufficialmente il disgelo tra USA Cuba annunciato pochi mesi prima.

Più che degli obiettivi a breve termine, nel suo messaggio Bergoglio ha indicato un metodo dal quale non intende recedere: «Mi piacerebbe manifestare la mia vicinanza e il mio incoraggiamento affinché il dialogo sincero consegua tale mutua collaborazione che unisce gli sforzi e supera le differenze nel cammino verso il bene comune». E, criticando ancora una volta la teoria capitalista della ricaduta favorevole, ha aggiunto: «Non è sufficiente sperare che i poveri raccolgano le briciole che cadono dalla tavola dei ricchi. Sono necessarie azioni dirette a favore dei più svantaggiati».

Come dire che la svolta tra Washington e l’Havana sarà un modello per la diplomazia vaticana, che sempre dovrà tenere conto di ottenere risultati a «favore dei più svantaggiati». Una chiesa “dei poveri” e una diplomazia “per i poveri”.

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