CHIAPAS. LA CHIESA CELEBRA I SUOI MARTIRI. (ASPETTANDO FRANCESCO). 18 anni fa 45 indios furono sterminati dai paramilitari mentre pregavano. Il vescovo Arizmendi: «gli autori di quella strage sono ancora liberi»

Acteal. Un momento della commemorazione della strage
Acteal. Un momento della commemorazione della strage

In Chiapas anche oggi si è celebrata la messa in memoria dei martiri di Acteal. Succede il 22 di ogni mese, nel piccolo santuario costruito sul lieve declivio di montagna dove esattamente 18 anni fa 45 indigeni totsil furono massacrati da una spedizione paramilitare mentre pregavano e digiunavano per la pace in una cappella di legno. Era il 22 dicembre del 1997. Nel giorno in cui cade l’anniversario di quella strage, è salito da San Cristòbal de las Casas fino alla chiesa tra i monti sopra Chenalò anche don Enrique Diaz, vescovo coadiutore della città chiapaneca che Papa Francesco ha voluto inserire nel programma del suo prossimo viaggio messicano.

A febbraio, il Papa troverà in quella regione una situazione non più segnata dalle violenze e dagli scontri che la martoriavano alla fine degli anni Novanta. Ma quel massacro attende ancora di trovare umana giustizia. «Sono tornati in libertà praticamente tutti quelli che erano stati arrestati come responsabili materiali e ideologici di quella strage» riferisce a Vatican Insider Felipe Arizmendi Esquivel, vescovo di San Cristòbal. «La Suprema Corte di giustizia del Messico» chiarisce monsignor Arizmendi «non ha detto che sono innocenti, ma ha stabilito che il processo non era stato fatto in maniera corretta. Alcuni di quelli che commisero quel crimine si muovono liberamente nella regione. Al momento non ci sono presagi di nuovi disordini. Ma c’è sempre il pericolo che da un momento all’altro possa scatenarsi la vendetta. E questo ci preoccupa molto».

Ad Acteal, esattamente 18 anni fa, gli stragisti falcidiarono con armi da fuoco e a colpi di machete bambini, donne e uomini inermi, in fuga per la foresta. Gli indios sfollati ad Acteal, che facevano capo al gruppo filo-zapatista las abeìas (le api), da due giorni erano riuniti insieme in digiuno e preghiera nella baracca in legno e lamiera che serviva loro da chiesa. Pregavano il rosario «per chiedere a Dio e alla Madonna la pace per il popolo», raccontarono alcuni dei sopravvissuti. Da mesi, anche le montagne intorno a Chenalhó, a poche decine di chilometri da San Cristóbal, erano state raggiunte dal vento di violenza e terrore che negli anni precedenti si era abbattuto sulle comunità indigene del Chiapas.

Uno stillicidio di vendette, rappresaglie, omicidi, saccheggi. Una “guerra a bassa intensità” fatta di controllo militare e di rappresaglie compiute da gruppi armati irregolari, scatenati contro le popolazioni protagoniste di quell’insorgenza indigena che dal 1994 teneva in apprensione gli apparati messicani. Nella zona erano da poco entrate in azione le squadre paramilitari. Per questo gli inermi contadini di Acteal si erano messi a pregare chiedendo di essere risparmiati dalla violenza. I carnefici erano arrivati dalla foresta, salendo dal fondo della valle, tutti in divisa blu e col volto coperto. Avevano mitragliato il legno della chiesetta-baracca, e poi avevano inseguito coi machete i disperati in fuga, squartando – secondo i racconti dei sopravvissuti – anche quattro donne incinte. Alcuni bambini si erano salvati rimanendo nascosti sotto i corpi delle madri ammazzate.

Per lungo tempo, fino alla strage di Baghdad del 2010, quello di Acteal è rimasto il più grande massacro di cristiani inermi riuniti in preghiera dei tempi recenti.

Allora, Acteal divenne una specie di sacrari a cui giungevano in pellegrinaggio giornalisti, fotografi e militanti di tutto il mondo infiammati dalla causa dell’insorgenza zapatista, mentre gli ambienti governativi cercavano di accreditare la strage come un regolamento di conti tra clan tribali in lotta. Ma tra gli indios del Chiapas, da quell’esperienza martiriale fiorirono anche tesori di fede e di consolazione. E il massacro accese l’attenzione su altre intimidazioni e violenze subite dai cristiani e dalla Chiesa di quelle parti.

A quel tempo, il vescovo di san Cristòbal era Samuel Ruiz Garcia, e il suo coadiutore era il domenicano Raul Vera Lopez. Il 4 novembre 1997, poche settimane prima della strage, c’erano state le pallottole sparate dai paramilitari contro il corteo di auto che portavano i due vescovi a Tila. Nello stesso periodo, dodici chiese erano state chiuse dopo le minacce dei gruppi armati irregolari. C’erano stati sacerdoti picchiati e torturati, attentati contro conventi e monasteri. Il vescovo Ruiz García era stato accusato di traffico d’armi a favore della guerriglia. Dopo la strage di Acteal, il generale a capo di tutte le truppe governative del Chiapas aveva sbandierato come “prove” del legame tra guerriglia e Chiesa il ritrovamento in una sede dell’Esercito zapatista di alcuni testi pubblicati dalla diocesi di San Cristóbal. Si trattava di un libro di canti, di un catechismo che spiegava il sacramento del battesimo e la devozione al santo rosario e di un Vangelo di Marco tradotto in un dialetto indigeno.

In quei mesi, la stampa allineata spacciava la rivolta indigena come frutto di un’opera di sobillazione, fomentata dalla Chiesa locale. I vescovi di San Cristóbal venivano accusati di «fondamentalismo». Veniva loro attribuito lo stesso «errore teocratico che fecero nel Seicento i gesuiti nelle reducciones degli indiani guaraní e, ancor prima, Bartolomeo de Las Casas», il domenicano primo vescovo di San Cristóbal che per difendere gli indios dall’oppressione si scontrò con i conquistadores e con gli ecclesiastici spagnoli che ne giustificavano teologicamente i massacri e le violenze in nome della “cristianizzazione” del Nuovo Mondo.

Nella sua prossima visita a San Cristòbal, Papa Francesco andrà anche a pregare sulla tomba di Samuel Ruiz. Come fecero alla sua morte migliaia di indigeni, scesi dalle montagne per manifestare il loro affetto verso “Tatic Samuel”, l’artefice di una pastorale impostata su una moltitudine di più 8mila catechisti autoctoni, in grado di parlare gli idiomi di ogni etnia. Oggi il vescovo Felipe Arizmendi, successore di Bartolomeo de Las Casas e di “Tatic” Samuel Ruiz, racconta che «la fede è stata alimentata anche dalla devozione per i martiri di Acteal», ma adesso «proprio in quella comunità si registrano divisioni tra chi ha accettato di aderire ai programmi di aiuto governativo, e quelli che rimangono su posizioni antagoniste, e vedono in quei programmi uno strumento per soffocare l’opposizione e l’identità indigena. Per questo» rimarca Arizmendi, pensando anche all’imminente visita di papa Francesco “l’urgenza del momento è quella di superare le fratture e aiutare la riconciliazione, in modo che tra la nostra gente ritorni l’armonia».

Da Vatican Insider

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