CONFINI INCANDESCENTI. Le ragioni della crisi tra Venezuela e Colombia. Appello del Papa: “Costruire ponti anziché chiudere frontiere”

Colombiani attraversano il ponte Simon Bolivar al confine con Venezuela.
Colombiani attraversano il ponte Simon Bolivar al confine con Venezuela.

Da decenni il Venezuela soffre le conseguenze del conflitto armato in Colombia, una miscela esplosiva di traffico di droga, guerriglia e paramilitarismo. Il fenomeno, che certamente non è nuovo, ha fatto sì che 5 dei 30 milioni di venezuelani siano di provenienza colombiana. Come avviene in qualunque processo migratorio, tra chi entra in un paese ci sono onesti lavoratori e approfittatori che si muovono ai margini della legge per guadagnarsi di che vivere con facilità.

Tra due paesi confinanti l’intercambio commerciale è qualcosa di naturale. Alla fine del secolo scorso il “business” della frontiera riguardava soprattutto droga, estorsioni e sequestri, e il controllo di un tale volume d’affari era l’oggetto principale della contesa tra tutte le parti. Ma da quando il Venezuela vanta una svalutazione record (più del 100% nel corso dell’anno), una inflazione lanciata quest’anno al 200% e recessione economica, e contemporaneamente dall’altro lato, in Colombia, si registra una crescita e il rafforzamento dell’economia, un nuovo “motore” è andato ad aggiungersi all’economia di frontiera: il contrabbando. Quest’ultimo prospera dal lato colombiano con la mancanza di controlli sui prodotti venduti evadendo le tasse e dal lato venezuelano è favorito da prezzi totalmente sfasati rispetto alla realtà.

Il Venezuela gode di un’agevolazione statale al prezzo della benzina che la rende la più economica al mondo (con il costo di una Coca-Cola si possono riempire 10 serbatoi da 50 litri), il che rende il prezzo al litro in Colombia, con riferimento ai prezzi internazionali, 10.000 volte più alto. In minor misura, ma con differenze comunque abissali, lo stesso avviene con i prodotti alimentari e quelli di igiene personale, il cui prezzo di vendita viene regolato dal governo venezuelano, e che in molti casi risulta addirittura minore allo stesso prezzo di produzione. È per questa ragione che, pur non giustificando tale pratica, si può ben intendere che genere di affare sia comprare in Venezuela per vendere in Colombia. La qual cosa, del resto, permette che ciascuno degli “attori” coinvolti si prenda una buona fetta di torta. Tutto questo si eviterebbe in un’economia sana in cui “i prezzi giusti” fossero semplicemente quelli reali e nella quale entrambi i governi regolassero con delle tasse le proprie esportazioni e importazioni.

È accertato come il conflitto armato colombiano colpisca il Venezuela, però la principale responsabilità del contrabbando risiede in una fallimentare politica economica del governo venezuelano. In Venezuela la popolazione soffre la penuria dei beni, ma questo non è il problema dei colombiani che vanno a comprare: è un problema di produzione nazionale. E il problema della produzione nasce a sua volta da una politica economica che non consente la libera impresa, da un governo che controlla il cambio dei dollari, le quantità e il percorso di tutto quanto venga importato o prodotto nel paese. Negli anni ’90 avveniva di frequente che molti venezuelani andassero in Colombia per comprare a un prezzo più basso alcuni prodotti, quali i tessuti o il caffè, e questo non ha mai generato destabilizzazioni o crisi all’interno del paese, ma anzi un aumento della produzione e la sua crescita economica.

C’è un secondo fattore che richiama l’attenzione: il momento in cui si produce lo stato di tensione tra i due paesi. Tanto il Venezuela quanto la Colombia sono alle porte di una tornata elettorale. Entrambi i governi ne avvertono la pressione, ma senza dubbio è il governo di Maduro ad aver bisogno di una vittima su cui rovesciare la responsabilità del fallimento del proprio modello. Con il conflitto il governo cerca di dare un volto al colpevole della scarsità di beni. Prima era la “guerra economica capitalista”, ora il contrabbando colombiano.

La settimana scorsa mi trovavo nei pressi della frontiera dove si stanno consumando tanti drammi famigliari. Le lunghe code per fare benzina sono diminuite, e se a questo sommiamo l’introduzione nel mercato di prodotti finora scarseggianti, grazie all’utilizzo dei fondi preventivati nella campagna elettorale per aumentare le importazioni, sembrerebbe che la tavola sia già stata apparecchiata per servire al popolo venezuelano il nuovo argomento che servirà a evitare nelle elezioni del 6 dicembre una sconfitta elettorale che possa far perdere all’attuale governo la maggioranza nell’Assemblea parlamentare nazionale.

È degno di indignazione il modo in cui si sono violati i diritti umani della persone innocenti che vivono nei pressi della frontiera. Segnando le case prima di demolirle e senza garantire loro un processo pacifico e rispettoso della dignità umana. In questo senso i resoconti di Amnesty Internacional e della Caritas della Chiesa Cattolica, oltre che le immagini, sono molto eloquenti. Famiglie intere che vivono sulla frontiera vengono divise in nome di un gioco politico che cerca di conservare il potere di alcuni. In questi giorni sono accaduti anche incidente all’interno del Venezuela e lontano della frontiera.

Quando il punto di partenza è l’ideologia e l’interesse personale o di un gruppo, è inevitabile cadere in una spirale di violenza. La realtà drammatica che sta vivendo il popolo rispetto alla scarsità di beni e all’inflazione, assieme agli alti indici di delinquenza, non si risolve deportando a forza i fratelli colombiani. Il dovere di un governo è generare condizioni che garantiscano la giustizia e il bene comune. Così come non è possibile permettere il contrabbando, è altrettanto necessario che si generino legalmente le condizioni per la produzione nazionale, e che siano rispettati i diritti di tutti.

Maduro ha chiuso la frontiera l´scorso 19 agosto nella regione di Tachira e recentemente, il 7 settembre, ha deciso lo stato di emergenza sul confine di La Guajira. Ha anche chiesto un incontro con il presidente Santos, e quest’ultimo, a sua volta dopo aver esaurito il ricorso a OEA e UNASUR, è alla ricerca di un terzo soggetto che possa servire da intermediario per il summit tra i due presidenti.

Papa Francesco si è riferito al conflitto alla frontiera appoggiando l’iniziativa dei vescovi di Venezuela e Colombia che si sono riuniti per esaminare assieme la dolorosa situazione che si è venuta a creare tra i due paesi. “Vedo in questo incontro un chiaro segno di speranza” ha detto il Papa. Per poi invitare “i due tanto amati popoli venezuelano e colombiano, a pregare affinché con spirito di solidarietà e fraternità si possano superare le attuali difficoltà» (Papa Francesco, Angelus – 6 settembre 2015). In un’altra occasione ha auspicato – come avvenne nell’anniversario del crollo del muro di Berlino – che “si diffonda sempre di più una cultura dell’incontro, capace di far cadere tutti i muri che ancora dividono il mondo…Dove c’è un muro c’è chiusura di cuore. Servono ponti, non muri!” (Papa Francesco, Angelus – 9 novembre 2014). Ma la domanda che emerge é: di che genere di esperienza c’è bisogno per favorire una cultura dell’incontro, per gettare ponti e non chiudere frontiere? Questo è il cammino, ricominciare dall’incontro. L’incontro ci sorprende sempre, apre le porte, ridesta il desiderio di costruire, di accompagnarci, di perdonarci e di costruire assieme il bene comune.

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