L’INSURREZIONE DELLE PANDILLAS. Violenza e omicidi in El Salvador superano gli indici registrati negli anni della guerra civile. E c’è chi parla di una nuova “insurrezione”

Ammanettati due a due. Foto Jessica Orellana
Ammanettati due a due. Foto Jessica Orellana

La parola è di quelle che i salvadoregni conoscono per una lunga e penosa storia di violenza che si è trascinata fino alle porte del XXI secolo, quando nel gennaio del 1992 vennero finalmente firmati degli accordi di pace tra governo e guerriglia a Chapultepec, in Messico: insurgenza, insurrezione. Ma questa volta chi ritorna a pronunciarla non lo fa in riferimento a un qualche tentativo di ribellione armata per abbattere un governo considerato irriformabile con gli strumenti della democrazia. Chi l’ha usata per la prima volta alcuni giorni fa su un giornale della capitale – una studiosa, Jeanette Aguilar – l’ha riferita alla situazione attuale del paese, caratterizzata da una spirale di azioni criminali diffuse, con relativa risposta repressiva dello stato. “Ci troviamo in una nuova tappa della escalation di violenza” ha denunciato la Aguilar, che dirige anche l’Istituto Universitario de Opinión Pública (IUDOP) dell’Università Centroamericana (UCA), quella dei sei gesuiti assassinati nel 1998, per la cronaca, “a cui partecipano sia lo Stato che le pandillas ed altri gruppi armati e illegali”. La Aguilar, autrice di vari libri sulle bande armate in Salvador e America Centrale si è spinta più in là, e ha usato la fatidica parola, prefigurando un transito oramai in corso “verso un nuovo stadio del conflitto in Salvador, dove le pandillas si trasformano in un gruppo sociale con i tratti di un raggruppamento insurrezionale”.

La trasformazione della guerra delle pandillas evocata dalla parola insurrezione è seguita con grande preoccupazione dalla Chiesa salvadoregna. “Non possiamo abituarci né rassegnarci a tante morti”, ha dichiarato l’arcivescovo di San Salvador, monsignor José Luis Escobar Alas. Gregorio Rosa Chávez, suo ausiliare e membro del Consiglio nazionale per la sicurezza, ha lasciato la porta aperta al dialogo con “tutti i settori” e ha citato, per rafforzare la sua posizione, le parole pronunciate da Papa Francesco ai carcerati dell’Ecuador solo un mese fa, segnalando che nemmeno loro devono essere tagliati fuori da un dialogo fattivo. “Tutti devono essere inclusi, questa è la posizione del Consiglio di cui la Chiesa fa parte. Speriamo di trovare la strada” si è augurato il prelato, cosciente che ricette collaudate non ce ne sono. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la Chiesa Luterana di El Salvador che per bocca del suo vescovo Medardo Gómez, ha dichiarato che “senza la partecipazione dei pandilleros nella elaborazione di programmi o strategie non sarà possibile una soluzione al problema della violenza”.

Ma la situazione delle ultime settimane nelle strade di El Salvador sembra proprio confermare le fosche previsioni di un altro lungo ciclo di violenza sistematica, organizzata, pianificata nello stile già conosciuto dal paese durante i 23 anni di guerra civile. Il mese di agosto si sta per chiudere con una media giornaliera di 25 assassini – circa 500 quelli contabilizzati fino a ieri – con ritrovamenti di cadaveri bruciati, corpi di giovani con segni di tortura, esecuzioni multiple. Tutti fenomeni che mostrano un salto di scala che ha portato El Salvador a strappare all’Honduras il macabro primato di paese più violento al mondo in assenza di una guerra dichiarata.

Le statistiche della Polizia criminale salvadoregna indicano che la media delle vittime della guerra civile durata dal 1980 al 1992, 20 al giorno, è stata superata nel corso dei primi sei mesi del 2015. Non solo. Alla fine di luglio le pandillas hanno messo a segno un blocco del trasporto pubblico che ha parzialmente paralizzato la capitale, San Salvador, per più di una giornata. E perché l’ordine di boicottaggio venisse preso sul serio dai lavoratori del trasporto le maras hanno ucciso 11 conducenti e ne hanno feriti altri quattro, causando 60 milioni di dollari di perdita a livello economico. Stessa pratica attuata dalla guerriglia negli anni della guerra civile quando l’FMNL isolava aree del paese paralizzando il trasporto pubblico e interrompendo l’erogazione dell’energia elettrica.

La reazione del governo davanti al tentativo di boicottaggio del trasporto attuata dalle maras è stata quella di far scendere in strada polizia ed esercito come mai prima. Dando vita ad una spirale conosciuta. In tre giorni, tra domenica 16 e martedì 18 agosto l’Istituto di medicina legale ha registrato 125 assassini, una media di 41,6 al giorno, il doppio del sanguinoso tributo quotidiano. “Questo panorama non fa nient’altro che gridarci ciò che già sappiamo – hanno commentato i vescovi – la violenza genera altra violenza. Politiche solamente repressive non daranno frutto se non si facilita il lavoro promesso nelle aree di rinserimento e prevenzione del delitto”.

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