ROMERO BEATO E GLI ALTRI 500. Un riconoscimento della miglior tradizione ecclesiale latinoamericana e sua americanizzazione. Con tanti altri in lista d’attesa

Fedeli in visita alla tomba di Romero, nella cripta della cattedrale di San Salvador. Foto: Francisco Rubio
Fedeli in visita alla tomba di Romero, nella cripta della cattedrale di San Salvador. Foto: Francisco Rubio

Tutto è compiuto. Le parole che dovevano essere dette sono state pronunciate da chi doveva farlo, il popolo a cui erano dirette si è concentrato in massa per ascoltarle. Francesco, il papa chiamato a Roma dalla periferia, ha accreditato davanti alla Chiesa tutta Romero come uno “dei suoi figli migliori”, il cardinale venuto da Roma alla periferia, il prefetto Angelo Amato l’ha ascritto alla tradizione di santità della chiesa latinoamericana. Un beato “americano” il cui ministero si è distinto “per una particolare attenzione ai più poveri e agli emarginati”: sono i due elementi che più caratterizzano il rito che si è svolto oggi sotto il sole cocente di San Salvador, dopo una vigilia flagellata da un violento temporale. Con Romero è stata riconosciuta la miglior tradizione ecclesiale latinoamericana ed è stata rilanciata come indicazione per tutta l’America. Una tradizione che ha nel Concilio Vaticano II un forte momento di maturazione e nelle assemblee di Medellin (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992) e Aparecida (2007) degli snodi importanti di autocoscienza anche sul piano teologico, o più laicamente teorico. La visione di Romero è una espressione autentica del modo con cui la Chiesa porta agli uomini alla salvezza. Questo è ciò che è stato definitivamente sancito.

Si sa che i 35 anni occorsi per arrivare all’atto di questo 23 maggio hanno avuto slanci e fasi di stanca, riprese e veri e propri affossamenti. Vi hanno alluso vari dei celebranti che si sono succeduti dal templete approntato in piazza Salvador del Mundo. In differenti momenti, soprattutto tra il 2000 e il 2005 dal Vaticano sono stati richiesti supplementi di indagine e approfondimenti di punti ritenuti non sufficientemente chiariti nel pensiero e nella prassi di Romero. La sua estraneità ad azioni guerrigliere come ispiratore intellettuale, anche indiretto, è uno di questi. Anzi, il punto su cui si è concentrata la resistenza più accanita. Lo storico italiano Morozzo della Rocca, biografo e supporter di peso alla postulazione, l’ha detto arrivando in Salvador identificando con precisione “l’opposizione di vescovi latinoamericani di destra convinti che Romero era sovversivo” e “l’esaltazione di Romero come figura rivoluzionaria, assieme a Che Guevara e Salvador Allende”. Le due alimentandosi a vicenda.

Ma i sospetti sono stati superati dall’esame di una mole enorme di materiali passati sotto la lente d’ingrandimento con una accuratezza per nulla incline ad approssimazioni e sconti. Romero teneva in ordine le sue carte, registrava gli appuntamenti, prendeva nota degli incontri e delle conversazioni, redigeva un vero e proprio diario come se inconsciamente – e alla fine anche coscientemente – conoscesse il proprio destino e stesse predisponendosi all’esame di un futuro tribunale ecclesiastico. L’ecclesialità della sua ispirazione è stata riconosciuta pienamente dai molteplici scrutatori. La morte sull’altare con il calice in mano è stata la morte di un ministro di Dio, le parole che ha pronunciato dal pulpito sono state quelle di un sacerdote di Cristo, la testimonianza che ha dato con la sua vita ha avvicinato il mistero di Dio e della salvezza all’uomo del suo tempo, caratterizzato in El Salvador – ha detto il Papa nella lettera in latino “da una difficile convivenza”. E la causa ha preso velocità. Fino all’accelerazione finale impressa da Papa Francesco, che come latinoamericano era nelle migliori condizioni per capire il vescovo centroamericano.

Dal momento in cui il dossier -Romero ha scalato le posizioni raggiungendo il primo posto nelle priorità della Congregazione per i Santi al momento in cui è stato proclamato il carattere martirale della sua morte è passato meno di un anno. Qualche altro mese e ne veniva annunciata la beatificazione, poi scelta la data in cui celebrarla, quella odierna. Poco tempo, troppo poco perché anche la società e la Chiesa salvadoregna nella sua totalità potessero assimilarne la portata. Ci vorrà ancora tempo perché Romero diventi il martire di tutti, il martire della concordia e della pace, dell’unità e della riconciliazione per usare i qualificativi del Papa, ma il tempo, adesso, corre nella direzione giusta, è un tempo favorevole. Romero non è ancora un santo americano come vorrebbe l’agiografia su di lui. Nel sud, in Argentina, Romero non riceveva, prima di oggi, l’attenzione che adesso gli viene riservata; in Brasile qualcosa di più, quasi nulla in Cile e molto poco in Paraguay. Ma lo diventerà. La sua propagazione si salda agli accenti di questo pontificato che lo latino americanizzeranno e americanizzeranno completamente, rendendolo una espressione della “Ecclesia in America” di wojtyliana memoria. Romero e Junípero Serra che verrà beatificato di qui a qualche mese in California – il cardinal Amato ha nominato entrambi nella sua omelia -, andranno a braccetto per le strade del continente.

Il suo ultimo successore, l’arcivescovo di San Salvador José Luís Escobar Alas ha parlato in questi giorni di Romero come di una figura “estremamente carismatica e attraente”. Peccato, ha aggiunto, che lo si “conosca poco e peggio ancora che sia stato diffamato”. Ci sono tre anni prima del centenario della nascita, il 15 agosto del 1917. La Chiesa del Salvador si propone di sfruttare a fondo questo tempo per far conoscere il beato Romero nella sua statura umana e cristiana. Con un trittico tematico che abbraccia ciascun anno. Il primo, oramai concluso, ha avuto come lemma “Romeo uomo di Dio”, il secondo comincerà nel mese di agosto e sarà dedicato a “Romero uomo di Chiesa, pastore e sacerdote”. Il terzo, che occuperà il 2016 sino al mese di agosto del 2017 avrà come centro il rapporto del vescovo beato con i poveri.

“C’è stata tanta santità in America” ha scritto papa Francesco nella lettera inviata per l’occasione. Nel Salvador ce n’è molta ancora da disseppellire. Il tormentato paese centroamericano è destinato ad essere fucina di martiri. Ce ne sono già parecchi in lista d’attesa. Rutilio Grande, il cui cadavere è stato vegliato da Romero la notte del 12 marzo 1977 – l’ha ricordato il suo ex-segretario, poi biografo e postulatore Jesús Delgado tracciando la sommaria biografia del beato – è il primo. Quindi i gesuiti dell’Università centroamericana José Simeón Cañas’ (Uca) assassinati il 16 novembre 1989, con nome e cognome: il rettore, lo spagnolo Ignacio Ellacuría, insieme ai confratelli spagnoli Ignacio Martin Baro, Segundo Montes, Amando Lopez, Juan Ramon Moreno, e al salvadoregno Joaquin Lopez, oltre alla cuoca Elba Julia Ramos e a sua figlia quindicenne Celina Mariceth Ramos. Un caso non citato ma pronto ad essere riesumato è quello di quattro religiose della congregazione Maryknoll torturate e assassinate tre mesi prima di Romero, il 2 dicembre 1980: suor Ita Ford, suor Maura Clarke, suor Dorothy Kazel e la laica Jean Donovan. Poi un numero grande di sacerdoti, catechisti e seminaristi uccisi prima e dopo Romero. “Stiamo studiando più di 500 casi e abbiamo messo al lavoro una apposita commissione” ha rivelato José Luís Escobar Alas, settimo successore del vescovo martire, e da oggi anche beato.

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