“ROMERO, MIO FRATELLO”. Intervista a Gaspar Romero, il fratello minore di Oscar Arnulfo. “Il 24 marzo ero al lavoro quando, alle 6 della sera…”

Gaspar Romero. Foto Archivio Il Faro
Gaspar Romero. Foto Archivio Il Faro

Gaspar Romero sta ormai per diventare il fratello di un santo della Chiesa cattolica in quanto, pochi giorni fa, il Vaticano ha compiuto un passo decisivo nel processo di beatificazione di Monsignor Oscar Arnulfo Romero Galdámez, riconoscendolo ufficialmente come martire. In questa conversazione, risalente all’agosto 2011, il più giovane dei fratelli Romero parla con familiarità dell’arcivescovo assassinato nel marzo del 1980. Gaspar è il più piccolo dei sette figli nati dal matrimonio tra Santos Romero e Guadalupe Galdámez. Il secondogenito fu chiamato Oscar Arnulfo, ed è il più conosciuto di tutti i salvadoregni, cosa con cui, bene o male, tutti i suoi familiari hanno dovuto imparare a convivere. La sua condizione di fratello ha consentito a Gaspar, tra le altre cose, di stringere la mano della regina Elisabetta II del Regno Unito, ma ha al contempo comportato il fatto che non può scendere nella cripta in cui è sepolto suo fratello senza che qualcuno gli chieda di prendere un microfono e parlare in pubblico, cosa che non lo entusiasma affatto. Monsignor Romero era un uomo molto ligio con il suo lavoro pastorale, ma si ritagliava anche del tempo per i suoi cari. Gaspar ricorda ancora le riunioni di famiglia, attorno a date come Natale o Capodanno, organizzate quando suo fratello era arcivescovo di San Salvador. «Dopo la Messa, la cena, e poi scherzavamo e ridevamo fino all’ una o alle due del mattino», dice. Il 15 agosto 2011 si compiranno 94 anni dalla nascita di Monsignor Romero e, come ogni anno, la Fondazione che porta il suo nome realizzerà una serie di attività commemorative. Gaspar attribuisce grande importanza a questi eventi, come a voler affermare, attraverso di essi, che in un paese segnato dalla violenza come El Salvador, gli insegnamenti del vescovo martire devono continuare a parlare oggi e non solo averlo fatto in passato.

Quanti anni c’erano tra lei e Monsignor Romero?

12 anni. Eravamo sette fratelli; lui era il secondo, e io l’ultimo.

Dunque, lei è nato nel…

… nel 1929. Quando nacqui lui era già andato a studiare nel seminario minore di San Miguel. I primi ricordi che ho di lui risalgono a quando avevo 5 o 6 anni, quando lui veniva a trascorrere le sue vacanze a Ciudad Barrios. Portava sempre la tonaca e mi invitava ad andare con lui in chiesa, perché andava solo lì.

A San Miguel viveva in un seminario, e quando aveva qualche giorno di riposo, li passava nella chiesa e solo lì.

E’ proprio così. Il fatto è che lui era un uomo molto religioso, e anche molto intelligente, un “fuoriserie” fin da bambino: dato che a Ciudad Barrios c’era possibilità di arrivare solo alla terza elementare, mio padre gli trovò un’insegnante che lo preparasse per il seminario di San Miguel. E stando lì successe la stessa cosa: il direttore del seminario disse che era meglio mandarlo a San Salvador.

Ci racconti come fu la sua infanzia. Sappiamo che la famiglia aveva un certo agio…

Lì c’è un libro che dice che la nostra era una casa poverissima, ma questo è falso. Mio padre era di Joroco (Morazán) e per il suo lavoro di telegrafista fu trasferito a Ciudad Barrios. Mia madre era un’insegnante. La nostra era una casa modesta, senza abbondanza, ma non eravamo poveri. La nostra casa sorgeva nel centro della città, e possedevamo terreni coltivati a caffè.

Sua madre invece era nata a Ciudad Barrios.

Sì, lì si conobbero e si sposarono.

Era una grande tenuta la vostra?

Mio nonno materno si chiamava José Ángel Galdámez, era un uomo dai grandi orizzonti. Era originario della zona tra Chalatenango e Sensuntepeque, e in quel periodo, sul finire del secolo XIX, la giunta municipale di Ciudad Barrios (che all’epoca si chiamava Cacahuatique) mise in vendita alcuni terreni non coltivati che aveva sulle falde del vulcano. Mio nonno lo venne a sapere e li acquistò. La proprietà iniziava nel punto in cui oggi c’è il carcere, faceva il giro di tutto il vulcano… Insomma, un grande terreno. Prima di morire, mio nonno lo divise e ne diede una parte a mio padre, suo genero, perché le questioni familiari le risolvevano tra uomini; gli lasciò circa 60 manzanas (400 mila metri quadri approssimativamente, ndt.).

Cosa ne è stato di questo terreno?

L’abbiamo perso a causa di un signore che si chiamava Claudio Portillo. Era uno degli uomini più in vista di Ciudad Barrios e divenne socio di mio padre. Era il padrino di mio fratello Arnoldo. Quando mio padre era già molto malato, chiese a Claudio Portillo di amministrargli la tenuta e di pagarsi con il raccolto, ma che sempre desse qualcosa alla famiglia. E così si fece per un certo periodo. Nel 1937 mio padre morì e mia madre ne assunse la responsabilità. Ma si ammalò, ebbe un ictus e rimase paralizzata nella parte destra del corpo e non potendo lavorare tutti dipendevamo da questi introiti. Ma questo signor Portillo se ne andò a San Miguel, fece un imbroglio con un avvocato e lì è finita la tenuta. Una volta sono andato a parlare con lui, e lui mi ha detto che avrebbe parlato solamente con Oscar, ma Oscar era a Roma. Quando mio fratello è tornato gli ho commentato la situazione e mi ha detto: “No, perché litigare per questo?”. Credo che da quel momento cominciò a non mostrare attaccamento per le cose materiali.

Ha menzionato il soggiorno a Roma. Parlò mai con lui di questo viaggio?

Certo. Studiò nel Pontificio Collegio Pio Latinoamericano e fu ordinato sacerdote nel 1942. Erano in tre in quel viaggio: lui, Monsignor Valladares e padre Yánez. Ebbero diversi problemi perché, durante la loro permanenza, la Seconda Guerra Mondiale si aggravò, El Salvador dichiarò guerra all’Italia e come conseguenza li trattennero. Una volta mi raccontò che, per non perdere tempo, studiò le lingue e chiese permesso al Vaticano di studiare i suoi archivi.

Se ben ricordo una volta che riuscì a uscire dall’Italia, giunse in nave alla Cuba di Batista, e lì ebbe altri problemi…

Riuscirono a venir via dall’Italia quando compresero che non erano spie né nulla di simile. E sì, giunsero a Cuba per fare un trasbordo, però lo arrestarono per lo stesso motivo. Lo misero in qualcosa di molto simile a un campo di concentramento. L’alimentazione era molto carente: Monsignor Valladares si ammalò gravemente, e Oscar dimagrì moltissimo. Da lì si spostarono in Messico, giunsero a El Salvador, e ricordo che in quei giorni gli venne fatta una grande accoglienza a Ciudad Barrios. La gente smise di lavorare per andare a riceverlo.

A quell’epoca cosa significava avere un sacerdote in famiglia?

In quell’epoca il cento per cento della gente era cattolica, molto devota e – direi – persino fanatica. Mentre lui era a Roma, a mia madre veniva continuamente chiesto: «Quando torna il padrecito? Che notizie ha del padrecito?» Tutti erano in attesa.

Ancor di più per essere stato ordinato a Roma, cosa che era alla portata di pochi, non è cosi?

Certo. Quando se n’è andato qualcuno ha cominciato a dire che aveva molti soldi e che per questa ragione potevamo permetterci di mandarlo.

Il ritorno fu alla fine del 1943, e lei allora aveva 14 anni. Si potrebbe dire che allora iniziò a conoscere suo fratello.

Vorrei dirle questo. Non so se per grazia di Dio o per un mistero che non ho ancora compreso del tutto, però noi, oltre che fratelli, diventammo grandi amici. A Ciudad Barrios si fermò per alcuni giorni. La gente veniva a trovarlo a casa, però le sere le passava a conversare con la famiglia, raccontandoci.

Di che cosa parlava con suo fratello?

Ricordo che un giorno mi ha detto: «Senti, e tu come stai?» «Ecco – gli ho risposto – ho fatto la terza elementare e ho imparato a utilizzare il telegrafo; sto già lavorando come fattorino». E mi disse: «E pensi di finire così?». Quella domanda mi sorprese molto, perché la professione di telegrafista era molto richiesta. Mi disse: «Devi in ogni caso terminare le elementari». Gli risposi che per questo dovevo andare a San Miguel e che non era tanto semplice, ma poco dopo lui andò a parlare con Monsignor Machado (Miguel Ángel Machado y Escobar, vescovo di San Miguel tra il 1942 e il 1968), e tornando mi disse: «Mi mandano ad Anamorós, in La Unión, e io vorrei che tu mi accompagnassi». Rinunciai al telegrafo e andai con lui.

Quella di Anamorós fu la prima parrocchia che al Monsignore venne affidata…

Una paese in cui non c’era acqua, non c’era elettricità, non c’erano strade… Ma quando hanno saputo che stavamo arrivando, chissà come, un sacco di gente è venuta a prenderci sulle bestie e ci hanno fatto una grande accoglienza. Ci fermammo là tre o quattro mesi, per sostituire un prete spagnolo, che credo si chiamasse padre Abarca. Appena arrivati, Oscar ha iniziato a lavorare: faceva catechismo ai bambini, sport per i giovani, conversazioni per anziani… Ma Monsignor Machado volle riportarlo a San Miguel a lavorare come suo segretario. A quelli di Anamoros la cosa non piacque molto.

Lei lavorava insieme a lui.

Lo aiutavo. Andavamo a Nueva Esparta, a Polorós, a Concepción de Oriente…sempre a dorso d’animale. Passavamo per Anamorós, però lui era il parroco di tutti quei paesi.

Siete rimasti insieme quando lo inviarono a San Miguel?

Lì ci siamo separati. Mi disse che lì il lavoro sarebbe stato diverso, e mi mandò a finire le elementari al collegio dei maristi, sempre a San Miguel.

Lei terminò la scuola primaria a metà degli anni quaranta. Non ebbe mai segni di una vocazione sacerdotale?

No.

Suo fratello non glielo domandò mai?

Eccome! Viveva con altri sacerdoti nella chiesa di Santo Domingo. A volte pranzavo con loro e mi ricordo che scherzavano dicendo: «Dì a tuo fratello che si faccia prete». Ma no… Mio fratello mi chiese se volevo continuare a studiare, e io in quel momento avevo molto chiaro che mi piaceva la radio, che a quel tempo era una gran novità. «Provaci, vedi dove», ha detto, e venimmo a sapere di un’Accademia a San Salvador: l’Accademia Edison. Mi ha sostenuto economicamente all’inizio, è anche venuto e mi ha presentato al direttore. Insegnavano telegrafia, ingegneria radio… Come le ho detto, una novità, ma poiché io ero stato telegrafista, avevo le basi.

E a San Salvador si fidanzò e poi si sposò.

Sì, però un po’ più tardi. Oscar ci sposò nella chiesa del quartiere Concepción, e fummo felicemente sposati, perché ho vissuto per 50 anni con mia moglie, fino alla sua morte… lei era di Ahuachapán e abbiamo avuto quattro figli.

Lei allora aveva ben chiaro che il suo lavoro era nelle telecomunicazioni…

Mi si perdoni il termine, però nell’Accademia io ero il “numero uno”, e iniziarono a cercarmi per lavori nei quotidiani, perché tutto quel che avevo studiato era utile a ricevere le notizie dall’estero.

Per quali quotidiani lavorò?

Per “El Diario de Hoy”, per “La Prensa Gráfica”, per “La Tribuna Libre”. Poiché cominciavo a guadagnare dissi a mio fratello che smettesse di aiutarmi, perché guadagnavo abbastanza per mantenermi. Alla fine mi diedero la mia credenziale, e mi aspettavano per lavorare in un posto molto migliore: in ANTEL (Administración Nacional de Telecomunicaciones; ndt). Ho iniziato nel 1948 e sono rimasto lì finché sono andato in pensione.

Lei a San Salvador, e suo fratello a San Miguel. Immagino che non vi siate potuti vedere molto in quegli anni.

Poco. Io ritornavo ogni tanto il sabato o la domenica, ma lui aveva sempre molto lavoro per tutto quello che organizzava, come a Amamorós. Non so dove trovava il tempo: aveva un’organizzazione di giornalai, un’altra di lustrascarpe, una di alcolisti anonimi, una di dame della carità. Quando lo andavo a trovare, mi diceva: «Devo andare a una riunione». «Ti aspetto», gli dicevo io. «Ma dopo, ho un’altra riunione…».

Monsignor Romero venne a San Salvador nel 1967 e fu nominato vescovo nel 1970. A quella cerimonia celebrata da padre Rutilio Grande lei era presente?

Sì, fu nella palestra del Liceo di San Salvador. Venne anche il Presidente della Repubblica, Fidel Sánchez Hernández. C’erano molti invitati in giacca e cravatta, ministri in ghingheri, e così non sono potuto stare tanto vicino a lui. Ricordo che arrivarono molti autobus da Ciudad Barrios e da San Miguel, e che la palestra era piena di gente.

Negli anni in cui lui visse a San Miguel vi vedevate spesso?

A volte veniva a trovarci a casa, oppure io andavo da lui e poi andavamo al mare. Mentre io guidavo, lui quasi sempre si metteva a scrivere i suoi discorsi.

Ho sentito dire che Monsignor Romero era una persona dal carattere difficile, irritabile e molto esigente.

Lui era serio e molto disciplinato, e voleva – e questo per me forse non era cosa buona – che gli altri fossero uguali a lui. Ricordo che là a San Miguel ci fu un mezzo disastro quando lui se ne andò per alcuni mesi e, al ritorno, si accorse che gli altri padri della chiesa di Santo Domingo avevano messo un tavolo da biliardo, ricevevano visite di ragazzi e ragazze… a lui tutto ciò non piacque per niente e fece volare tutto.

Avete mai avuto qualche scontro?

Io ero giovane e avevo i miei amici. Ricordo che una volta sentì che avevo odore di birra e mi gridò: «Guarda, sei ubriaco! Così, non vieni qui! Così non ti voglio vedere qui! Prenderai il vizio!». Fumavo anche, e questo non gli piaceva per niente. «Senti che puzza di sigarette!», mi rimproverava.

C’è qualcosa di tutto ciò che si è detto e scritto su Monsignor Romero, che le ha dato particolarmente fastidio?

Di lui si diceva che era comunista, che approvava la guerriglia… Non era in nessun modo schierato politicamente, detestava tutto questo. Qualche volta gli ho chiesto se aveva visto le notizie, e lui mi rispondeva: «Guarda, non venirmi a parlare di queste cose…».

Nemmeno quando era arcivescovo…

No, lui ha sempre avuto chiaro che non voleva mescolare la Chiesa con la politica. Alcuni gli dicevano che stava solo dalla parte dei ricchi, altri che stava solo da quella dei poveri. Quando la guerra era al suo culmine, al suo ufficio nel seminario di San José de la Montaña venivano a chiedergli aiuto sia i ricchi che i guerriglieri, persino a chiedergli ospitalità; e a nessuno diceva di no.

Dopo ritorneremo sui suoi anni da arcivescovo, ma ora ci interessava soffermarci sugli anni trascorsi in qualità di vescovo a Santiago de María. Quanto crede che abbiano influito in lui quei due anni?

Poco prima di tornare a San Salvador, una volta mi disse che il periodo più felice della sua carriera era quello trascorso a Santiago de María, perché aveva vissuto con i contadini, con la gente umile. Era troppo generoso, i soldi che gli arrivavano li dava ai bisognosi, per questo morì senza un centesimo… Una volta, una famiglia gli regalò delle buone scarpe, costose, e mi disse: «Guarda, come mi stanno queste scarpe?»«Te le vedo bene» gli ho risposto, e mi ha chiesto di darle al giardiniere. «E perché non le regali a me?», chiesi; e mi rispose: «No, perché tu le hai già, mentre il giardiniere va in giro a piedi nudi».

Però si dice che cose di questo tipo le facesse anche prima di arrivare a Santiago de María.

Sì, le ha sempre fatte.

Non crede, come assicura qualcuno, che suo fratello abbia vissuto una sorta di conversione a Santiago de María?

Certo, là entrò in contatto diretto con la povertà estrema, conobbe le condizioni dei raccoglitori di caffè…

Ma non ha mai avuto il coraggio di protestare contro i proprietari terrieri.

No, lui andava d’accordo con i proprietari terrieri, non gli ha dato fastidio. Quello che voleva ottenere era che i raccoglitori potessero dormire sotto un tetto, ma non lottava contro i possidenti. Anzi, ebbe alcuni amici…

… altolocati

…certo, ben piazzati.

Di ritorno a San Salvador, già come arcivescovo, avete mai parlato dei gesuiti, di padre Grande?

Lui era suo amico. Però una volta mi ha detto: quel Rutilio si sta mettendo nei guai, rischia che…

Questo prima che lo uccidessero?

Sì, perché Rutilio aveva in quell’epoca questo movimento che occupava le terre. “Lo vanno a fregare” mi disse, “io l’ho consigliato, ma lui è fatto così”.

Quando uccisero padre Grande, suo fratello celebrò la famosa Messa unica, avendo contro anche il nunzio.

Guardi, il fatto è che lui aveva disciplina, ma anche una cosa che si chiama… aveva del coraggio! Per non dire un’altra parola…

Lei era nella Cattedrale metropolitana quel giorno?

No, non c’ero. Come ho detto, lavoravo per ANTEL, per il governo, e venivo tenuto d’occhio. Casa mia, nella colonia Montserrat, era sempre sorvegliata per controllare chi arrivava e cose simili.

Ma come ha vissuto questo ardire di suo fratello? Pensava che gli avrebbe creato problemi?

Persi il lavoro, per il fatto di essere suo fratello.

Questo episodio è menzionato da Monsignor Romero nel suo diario, nel giugno 1979.

Io avevo una posizione molto buona in ANTEL, da dirigente. E d’un tratto arrivò l’ordine, ricordo che accadde un venerdì: mi trasferirono in portineria, a lavorare dalle 7 della sera alle 7 del mattino. Volevo sapere quale fosse il motivo, che cosa avessi fatto, chiesi persino udienza, ma non me la concessero mai. Così, ho obbedito e sono finito in portineria. Quando poi riuscii a parlare con il mio capo, lui mi confermò: «E’ a causa di suo fratello». «Ma non ho nulla a che fare con lui, né mio fratello ha nulla a che fare con i telegrafi, e io non so nulla di preti».

Di certo, Monsignor Romero in diverse occasioni nel suo diario si lamentò di ANTEL, arrivando persino a dire che interferiva con il segnale di YSAX, la radio dell’Arcivescovado.

In quel periodo io mi sentivo un po’ a disagio. Per la mia sicurezza personale, perché i miei figli avevano una borsa di studio, e perché gli amici si erano allontanati, lasciandomi solo, per paura, perché c’era gente convinta che sarebbe successo qualcosa a lui e ai suoi familiari.

Come fu la conversazione in cui lei gli disse che era stato degradato?

Accadde che quel venerdì, in cui giunse l’ordine, mia moglie andò a trovarlo. Io non me ne accorsi, ma fu mia moglie a dirgli quello che mi era accaduto. Lui venne fuori dicendo che Dio è in ogni cosa, che cercassi un altro lavoro, ma ho resistito, e ad ottobre è arrivato il Golpe, ci sono stati cambiamenti ad ANTEL, e tutto è tornato come prima.

Ognuno ha le sue simpatie, anche quando non è militante. Politicamente, lei dove si collocava?

Avevo simpatia per il presidente Arturo Armando Molina, ma non tanta per il generale Humberto Romero.

Il FMLN non esisteva ancora, però simpatizzava con FPL, con Ligas Populares 28 de Febrero o qualcuno di quei gruppi?

No, affatto. Loro occupavano le ambasciate, invadevano le chiese, sequestravano persone, facevano manifestazioni… io non ero d’accordo con questo.

Non era d’accordo o ne aveva una cattiva opinione?

Ne avevo una cattiva opinione.

Ascoltava le omelie di suo fratello?

Certo, e quando avevo tempo, mi avvicinavo alla Cattedrale o al Sagrado Corazón.

Nelle settimane precedenti l’assassinio nell’ambiente si percepiva quel che sarebbe potuto accadere. Come ha vissuto quei giorni?

Anche io ricevevo molte minacce anonime a casa, da insulti a volgarità ad altre molto fini, nelle quali mi dicevano che volevano molto bene a mio fratello e che io intercedessi. Il venerdì prima che lo uccidessero (Monsignor Romero fu ucciso un lunedì) mi arrivò un testo anonimo che diceva qualcosa del tipo che se mio fratello non avesse desistito dalle sue omelie, avrebbe avuto le ore contate, che lo avrebbero sequestrato e che io glielo avrei dovuto dire. Era chiaro, inequivocabile. Allora andai da lui e lui mi disse: «Non farci caso, buttalo via».

Quello fu il suo ultimo dialogo con lui?

Esatto, nel suo ufficio del seminario. Mi ha detto: «Non ti preoccupare, se mi succede qualcosa, tu sarai il primo della famiglia a saperlo. E sono state parole profetiche, perché il 24 marzo ero al lavoro quando, alle 6 della sera, venne il mio capo e mi disse di correre al Policlinico, che avevano ferito mio fratello. Io lo sapevo già, davvero, e sono uscito di corsa. Arrivato, non mi volevano lasciar entrare, però mi sono identificato. Alle 10 giunsero tutti i parenti, e rimasi lì tutta la notte.

Cosa è successo dopo?

Ricordo che un prete disse che dovevano vedere il tema della mortuaria e mi invitarono ad essere presente. Siamo andati all’Auxiliadora, e appena usciti dalla Policlinica, boom, boom, le esplosioni.

Nel Policlinico lo imbalsamarono, non è così?

Sì. Un padre disse che poiché il Monsignore era molto umile, avrebbero comprato la bara più economica, una di legno, però per me questa era pura taccagneria. E così ho chiesto il servizio funebre più caro, che ricordo costava 7000 colones. «Prendiamo questo!», dissi. E quel padre diceva che erano troppi soldi, che avrebbe dovuto chiedere una autorizzazione alla Curia. «Bene», risposi io, «se voi non volete pagare, la famiglia vedrà come farlo». E meno male che scegliemmo quello più caro, perché quando lo andarono a seppellire nella Cattedrale, ci furono le esplosioni, e la bara passò da uno all’altro. Se fosse stata quella di legno si sarebbe fatta a pezzi.

Dov’era lei, il giorno dei funerali?

Ero dentro la cattedrale, al fianco del cardinale venuto dal Messico (Corripio). Ricordo che misero la bara sulle grate, e mi chiesero di fare un breve discorso sulla sua vita. La piazza era colma di migliaia di persone. Pensavo: povera gente, che se ne sta lì sotto il sole… Allora cominciarono le bombe, la gente cominciò a correre da una parte all’altra, molti cercarono di entrare nella cattedrale, altri spingevano la bara e alcuni se la volevano persino portare via… Molti di noi erano stesi a terra: i sacerdoti, i vescovi, tutti, perché boom, boom… Non ci lasciavano uscire, sbarrarono le porte. Passò molto tempo prima di poter uscire.

Fece in tempo a leggere il suo discorso?

Sì. L’unica cosa che mi chiesero fu che fosse breve, perché la cosa doveva essere veloce.

E che cosa disse? Ricorda qualche parola o qualche idea?

Che eravamo di Ciudad Barrios, che eravamo molti fratelli e quello che sentivamo. Ricordo che dissi che come essere umano ero addolorato per la perdita di mio fratello, ma come salvadoregno per la perdita che il paese aveva subito, con un uomo di quella statura.

Dopo l’omicidio, gli squadroni della morte imposero un regime di terrore in cui possedere anche solo una fotografia di suo fratello poteva significare la morte. Come visse quegli anni?

Io non me ne sono andato da El Salvador. Mi chiedevano se avessi paura, e io credo che ciò che mi diede forza e serenità fu il dolore stesso di aver perso un fratello che era stato così buono, con me.

Dopo la sua morte le minacce continuarono?

No, non più, e nemmeno ho avuto più problemi in ANTEL.

I 20 anni di ARENA furono di totale ermetismo nei confronti della figura di suo fratello, ma con il governo attuale si è visto invece un cambiamento, almeno sul piano delle manifestazioni pubbliche di affetto. Come ha vissuto, su un piano personale, tutto questo?

Onestamente, sono rimasto contento del fatto che il presidente Mauricio Funes si è recato a pregare sulla tomba di Monsignor Romero prima di assumere la presidenza. E sì, c’è stato un cambiamento. Un giorno sono venuti dal Ministero degli Esteri qui a casa, e lì dove ora sta seduto lei allora era seduto Hugo Martínez, il ministro degli esteri. L’ho ricevuto in pantofole, perché non mi avevano avvertito del suo arrivo. Allora mi spiegarono del loro progetto di fare un monumento, e tutto il resto.

Sono cambiate le forme, però il Governo ha già dichiarato che non farà nulla per abrogare la Legge di Amnistia che impedisce di giudicare nel nostro paese gli assassini di suo fratello.

Già altre volte mi hanno chiesto di questo, e io rispondo la stessa cosa che diceva il Monsignore: vorrei una giustizia rapida e completa. Quello che desidero è che si sappia la verità.

Si è ipotizzata l’idea di intitolare l’aeroporto “Aeroporto Internazionale Monsignor Óscar Arnulfo Romero”.

Sì, l’ho sentito dire. Forse si farà per il centenario della sua nascita.

Ma questo è nel 2017…

Non ho fatto i conti, ma è giù di lì. Quello che molta gente mi ha chiesto è che, come fratello, spinga affinché la via Diego de Holguín venga intitolata a Monseñor Romero. Questo Diego de Holguín era straniero, e inoltre quasi nessuno lo conosce.

Non le sembra un riconoscimento maggiore quello dell’aeroporto?

Beh, meglio entrambe le cose, no?

La figura di Monsignor Romero cresce di anno in anno, ma non altrettanto i valori di umanesimo, giustizia e bontà che lui ha promosso. Come si spiega questa apparente contraddizione?

Ogni volta che parlo di mio fratello mi vengono alla mente cose su di lui e ora che mi domandate questo, ricordo che quando la guerra stava per iniziare lui mi disse: «Guarda, la guerra non la fermano più, ho parlato con mezzo mondo perché si siedano a dialogare, e nessuno vuole accettare; così, quello che sta per arrivare sarà terribile, ma più ancora quello che accadrà dopo la guerra». Io allora non compresi cosa volesse dire. Come, quello che verrà dopo la guerra sarà peggiore? E ora sembra che sia proprio così…

*Del quotidiano di El Salvador El Faro. Intervista pubblicata nel mese di agosto del 2011; ripubblicata il 5 febbraio 2015 

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