VENEZUELA. LA DIFFICILE RICOSTRUZIONE. Fallimento di un modello di sviluppo e debolezze di una alternativa credibile. La delusione dei chavisti, i limiti dell’opposizione

Dallo scontro al dialogo
Dallo scontro al dialogo

Di questi tempi il Venezuela appare quotidianamente nei titoli dei media internazionali non esattamente per il suo potenziale petrolifero, la bellezza delle sue donne, le splendide coste o i fantastici tepuis che danno vita a meraviglie come il “Salto del Angel”. Le ragioni sono altre; in questa terra muoiono per violenza 25mila persone all’anno su una popolazione di 30 milioni; l’inflazione è la più alta del pianeta; la mancanza dei prodotti di base costringe a perdere giorni interi in fila per acquistare una confezione di farina, zucchero o latte; lo stato esercita la supervisione di tutte le attività d’impresa attraverso controlli del cambio della moneta e delle importazioni e attua meccanismi di espropriazione per scoraggiare ogni attività produttiva privata. Tutto questo incoraggia un’economia di contrabbando, in cui una persona può guadagnare in una settimana il salario minimo facendo code ai supermercati e rivendendo prodotti. Il risultato del controllo dei prezzi e delle misure di repressione è più corruzione e più contrabbando.

Dopo 17 anni di “Socialismo del XXI secolo”, con entrate record per gli alti prezzi del petrolio, non si vedono risultati che possano dimostrare che il modello funziona e generi un aumento della produzione nazionale. Ciò che si è ottenuto è piuttosto una maggiore dipendenza dalle importazioni e una minore indipendenza economica. Si calcola che un milione di venezuelani, soprattutto di classe media e professionisti, abbia abbandonato il paese negli ultimi 10 anni, un esodo di professionisti e docenti universitari che continua tutt’ora.

Di fronte a questo scenario, sebbene il governo Maduro stia attuando misure economiche come la flessibilizzazione del controllo del cambio, che ha svalutato del 340% la moneta, o una campagna per un prossimo aumento della benzina (quella venezuelana è la più economica del mondo e deve essere importata per soddisfare il fabbisogno locale), non si vede una chiara volontà di risolvere i problemi che preluda ad un’inversione di tendenza condivisa dalla maggioranza dei venezuelani. Invece di lavorare per la ripresa si continua a negare la realtà, limitandosi a un discorso ideologico che non serve per sostenere le necessità (e la speranza) del popolo.

Per tentare di coprire la cruda realtà di tutti i giorni, si perseguono i dissidenti incarcerando leader politici dell’opposizione senza un processo secondo le norme della costituzione, o si generano conflitti artificiosi per sviare l’attenzione dal vero problema. Il Venezuela occupa il terzo posto nella lista degli SwissLeaks pubblicata recentemente. Sugli scandali di corruzione e le accuse di partecipazione al narcotraffico di personaggi del governo non si è nemmeno avviata un’indagine; in compenso si incarcerano leader dell’opposizione senza ordine di cattura, come è avvenuto di recente con il sindaco Ledezma o si lanciano accuse infamanti ad altri leader come María Corina Machado o Julio Borges.

Il 2014 si è chiuso con studenti detenuti sono sottoposti a torture terribili, e 88 prigionieri politici, tra i quali due sindaci eletti democraticamente e con ampia maggioranza nei loro municipi. Forse il caso più emblematico è quello di Leopoldo López, ex-sindaco del Comune di Chacao, a Caracas, che si consegnò alla giustizia il 18 febbraio dell’anno scorso e ora si trova in un carcere militare in attesa di sentenza dopo un anno di processo. 360 giorni dopo la sua incarcerazione, la CNN è riuscita a realizzare un’intervista telefonica clandestina, nella quale il leader dell’opposizione ha ribadito la propria posizione politica, parlando di speranza e di un futuro per il paese, dimostrando di credere nella possibilità di ricostruire il Venezuela.

Purtroppo la necessità di un cambiamento oggi è più legata al fallimento di un modello che alla proposta di un’alternativa valida e credibile per i settori popolari. E ciò è molto pericoloso perché si rischia di entrare in una spirale di tentativi ed errori senza fine.

Uno dei principali problemi è la delusione di molta gente che ha creduto fortemente nella soluzione proposta dal defunto presidente Chávez, e oggi si ritrova confusa e frustrata. E, dall’altro lato, nemmeno l’opposizione si è presentata come un’alternativa percorribile, solida e unita in grado di rispondere alle aspettative dei settori popolari.

La costruzione di un paese passa per la costruzione della persona e questo non può partire esclusivamente da un’idea, un progetto politico o un’ideologia. La collaborazione di persone che scommettono sul bene comune parte dal prendere sul serio la persona per quello che è, dalle sue necessità primarie di sicurezza, alimentazione, abitazione ed educazione, fino alle esigenze più elevate che gli permettano di aspirare a un futuro migliore e realizzarsi attraverso il proprio lavoro.

In un momento così delicato della storia del paese c’è bisogno non solo di leader politici di ampie vedute, capacità di correzione e dialogo, ma anche della presa di coscienza della responsabilità di ciascuno nel proprio ambiente: la famiglia, il lavoro, la comunità. È necessario favorire una cultura dell’incontro, che lasci da parte l’odio e il rancore. Il perdono e la riconciliazione non significano assenza di giustizia, sono la strada perché questa sia possibile.

É urgente il dialogo per costruire. Come ha detto Papa Francesco nella Moschea Blu di Istanbul: “All’inizio del dialogo c’è l’incontro. Da esso nasce la prima conoscenza dell’altro. Se si parte dal presupposto della comune appartenenza alla natura umana, si possono superare pregiudizi ed errori e si può cominciare a capire l’altro secondo una prospettiva nuova”. Il nostro compito, come per i primi cristiani, è quello di poter favorire questi luoghi di incontro che permettano il dialogo, perché questa è l’unica via per la ricostruzione di relazioni veramente umane, che alimentino una politica come servizio al bene comune.

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