Ci si può riconciliare davvero dopo cinquant’anni di conflitto? Fidarsi di chi fino a ieri era il tuo nemico? E soprattutto: che fare con gli ormai ex-ribelli? Sono alcune delle domande a cui l’esercito e più in generale la società colombiana – adesso che la maggioranza della popolazione scommette sulla pace con le FARC – vogliono provare a dare una risposta. Con l’aiuto, magari, di chi in passato ha già vissuto situazioni simili.
Ecco spiegato l’incontro di Cartagena tra lo stato maggiore dell’esercito al completo (presente anche l’ex generale ed ora negoziatore nei negoziati di pace, Jorge Enrique Mora) e un gruppo internazionale di esperti in disarmo e gestione dei dopoguerra. Un incontro che è servito, come affermato dal Ministro della difesa colombiano, Carlos Pinzón, ad “avere la mente aperta, conoscere e imparare dalle migliori esperienze”. Perché “occorre cercare il miglior modello possibile”.
Gestire la fine del conflitto con le FARC si preannuncia tutt’altro che semplice. E un ruolo di primo piano spetterà ai 500 mila effettivi dell’esercito colombiano. Gli esempi per riflettere portati dagli invitati internazionali– come il generale americano Kelly, veterano delle due guerre del Golfo, oggi a capo del Comando Sud degli Stati Uniti – sono stati più di uno. Quello del Nepal, per esempio, dove la ribellione iniziata nel 1996 dai guerriglieri maoisti lasciò sul campo 13 mila morti. Fino all’accordo con il governo firmato nel 2006, quando per cercare di riportare i ribelli nell’alveo istituzionale si mise a punto un piano di riabilitazione in cui ai guerriglieri venivano date tre opzioni: chiedere del denaro, seguire una formazione tecnica o integrarsi all’esercito reale nepalese. Un piano che – seppur tra qualche malumore proprio all’interno dell’esercito – ha fatto sì che le forze armate abbiano potuto mantenere la loro integrità, riportando lentamente la situazione alla normalità.
Gli esperti hanno anche citato il caso dell’Irlanda del Nord, dove il primo passo della riconciliazione tra cattolici e protestanti furono gli accordi del Venerdì Santo del 1998. E tra le azioni più significative ci furono la riforma del Royal Ulster Constabulary, un corpo di polizia composto al 93 per cento da protestanti e responsabile di abusi nei confronti di migliaia di civili. Nel 2001 il governo creò il Police Service of Northern Ireland, una nuova agenzia molto più aperta ed attenta ai diritti umani che fu la base per ricostruire la fiducia con i vecchi avversari. Un’esperienza probabilmente presa a modello da chi proprio in Colombia aveva proposto un corpo di polizia composto da ex-guerriglieri. Proposta che sollevò un mare di reazioni contrarie, ma che forse ora verrà considerata con maggiore attenzione.
Alla voce “cose da non fare” gli esperti riuniti a Cartagena hanno invece citato il caso del Salvador. In quella circostanza gli accordi seguiti alla guerra civile durata dal 1980 al 1992 e costata 75 mila tra morti e dispersi non contemplarono la re inserzione degli ex-guerriglieri del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN) nell’esercito. Le Forze Armate anzi, sotto la tutela internazionale, dovettero smobilitare, riducendo in poco tempo i proprio effettivi del 50 per cento ed aprendo così il campo alle ultra violente pandillas, le bande criminali legate al narcotraffico che oggi fanno del Salvador uno dei paesi più violenti al mondo con un tasso di 41,2 omicidi per 100 mila abitanti.
Insomma gli esempi, positivi e negativi, non mancano. Il dibattito è aperto: la ricerca di una “via colombiana” al post conflitto è appena cominciata.