DISSOTTERRARE MORTI NELLA TERRA DEI SICARI. Nel Messico degli scomparsi, alla ricerca dei propri cari sepolti nelle fosse clandestine di Guerrero

Professione, disseppellitore anonimo
Professione, disseppellitore anonimo
“Sono settimane che andiamo tutti i giorni su e giù dalle colline, senza cibo, senza bere acqua, ma la nostra lotta è per trovare i nostri familiari. Se lei potesse accompagnarci e vedesse il dolore. Sono coperti con rami, con pietre, immondizia e li trovi lì, come animali. Quello non è sotterrare. Non scaviamo neppure molto e sono lì. Abbiamo trovato ciabatte, scarpe da bimbo o bimba, vestiti, la tessera elettorale di un ragazzo, le scarpe di una ragazza. Sono stati gettati lì, dove vanno gli avvoltoi”. Luisa è la madre di Carlos Escobar Bastián, scomparso nel gennaio del 2014. Fa parte dell’esercito di “dissotterratori” che, stanchi di essere ignorati della autorità, hanno deciso di organizzarsi da soli e iniziare a cercare i propri cari – figli e figlie, nipoti, mariti – scomparsi. E da quando hanno iniziato a lavorare – siamo nello stato di Guerrero, lo stesso dei 43 studenti di Ayotzinapa – hanno trovato più di 60 fosse.
La rivista messicana Proceso racconta la loro storia.
Erano in 50 all’inizio e già il primo giorno trovarono otto corpi. Lenti scure e cappelli a falde larghe per la paura di essere identificati, perché sanno di essere in terra di sicari. Dopo una settimana, la procura della Repubblica, preoccupata dall’inarrestabile ritrovamento di fosse e corpi decise di intervenire supervisionando le ricerche. Accadeva il 16 novembre. Da allora nella sola città di Iguala e nei suoi dintorni sono stati dissepolti 39 corpi interrati clandestinamente e 75 – tra cadaveri e resti – nella fossa comune municipale. In totale sono state ispezionate 63 fosse, di cui 16 con resti umani. Poi, durante la ricerca dei 43 studenti di Ayotzinapa, ne vennero trovate altre 6 con trenta corpi carbonizzati: “un’altra fermata nella carrellata degli orrori”, come titolò quella volta perfino il Washington Post. I resti, infatti, non erano quelli degli studenti.
Numeri che sono pur sempre un’inezia rispetto alla statistica nazionale che conta oltre 22 mila scomparsi. Il 2014 è stato l’anno con più sparizioni: 5 mila e 98. Il giornale La Jornada ha calcolato che in Messico scompaiono 14 persone ogni giorno. “Viviamo in un cimitero”, è la constatazione di Juan Jesús Canaán, in cerca del nipote scomparso nel 2008. Ma, paradossalmente, è stata proprio questa consapevolezza, quella di essere parte di qualcosa di molto comune in Messico, a spingere le famiglie a riunirsi in un’organizzazione chiamata “Comitato delle Famiglie Vittime di Sparizioni Forzate” e a prendere per la prima volta coscienza del disinteresse delle autorità nei confronti dei desaparecidos.
Sparizioni divenute una piaga sotto il governo di Felipe Calderón e consolidatesi come triste realtà sotto quello attuale di Enrique Peña Nieto. Soprattutto dopo i fatti di Ayotzinapa anche la comunità internazionale ha iniziato a monitorare la situazione. Tanto che durante il mese di febbraio il Messico comparirà di fronte al Comitato Speciale delle Nazioni Unite contro le Sparizioni Forzate. Al vaglio della commissione ci sono 318 casi.
La famiglie, frattanto e nonostante le restrizioni della polizia giudiziaria, continuano a battere le colline. Il loro metodo – spesso sbeffeggiato dai forensi professionisti – consiste nel perforare la terra smossa con una bacchetta di ferro, rimuoverla e quindi annusarla in prossimità della punta per trovare odore a defunto. Le autorità, d’altra parte, provano a fare qualcosa. Il governo ha messo a disposizione delle famiglie assistenza medica, psicologica e legale. Ma spesso le famiglie si scontrano con la lentezza delle procedure. “Se questa è la capacità di risposta della massima autorità è triste. Ci dicono sempre di essere comprensivi, che non siamo i soli con questo problema, che gli scomparsi sono 22 mila, che gli antropologi sono insufficienti, ma se continuiamo al loro ritmo impiegheremo anni per andare agli altri punti dove sappiamo che ci possono essere fosse”, dichiara a Proceso Xitlali Miranda, segretaria dell’associazione. Altre volte, invece, c’è un aperto contrasto tra le autorità della procura e le famiglie. Alcuni criticano l’inesperienza del personale governativo. “La procura ha scartato luoghi che dice aver già ispezionato, e noi continuiamo a trovare fosse. Noi siamo gente di campagna, sappiamo dove c’è qualcosa, dove scavare. E vediamo quando qualcuno non sa maneggiare una pala, loro magari hanno l’esperienza per il tanto leggere, per le lezioni, ma scartano zone dove ci sono radici, l’antropologa non distingue l’odore dell’acqua stagnante da un altro tipo di odore…” commenta Juan Jesús Canaán.
L’obiettivo del “Comitato delle Famiglie Vittime di Sparizioni Forzate” è anche quello di fa sì che siano sempre meno le persone che non sporgono denuncia per paura. La Procura Generale ha ricevuto 235 denunce per scomparsa, di cui 25 riguardanti donne. Il Comitato ne ha altre 100 negli archivi. Secondo l’analisi di Julia Alonso, rappresentante di Scienza Forense Cittadina, nel 75 per cento dei casi i responsabili sono stati poliziotti municipali. Le scomparse, ad Iguala, hanno avuto un’impennata sotto il governo di José Luis Abarca, il sindaco accusato tra l’altro di aver dato l’ordine di attaccare i 43 studenti di Ayotzinapa. Dei 235 casi denunciati ben 110 sono avvenuti ad Iguala. E secondo un rapporto ufficiale pubblicato dal quotidiano La Jornada sotto la gestione Abarca circa 100 narcotrafficanti lavoravano nella polizia municipale.
Oggi in città le famiglie si riuniscono nella chiesa di San Gerardo, dove anche gli inviati del governo danno assistenza legale, medica e psicologica. Lì, nella chiesa, si scambiano le storie e pianificano le ricerche. La loro vicenda è di ispirazione per i famigliari di vittime di sparizioni di altre parti del Messico. “Noi raccontiamo la nostra esperienza e diciamo: non aspettate che sia l’autorità ad iniziare le ricerche, organizzatevi, iniziate a cercare da soli” esorta la segretaria Miranda. Nella chiesa molti indossano la stessa maglietta. C’è scritto: “Figlio finché non ti seppellisca continuerò a cercarti”. Qui, diversamente da altre parti del Messico, la gente sa che le possibilità di trovare qualcuno vivo sono praticamente nulle. “È per questo che abbiamo iniziato a cercare nelle fosse”, spiega Mario Vergara, il capo della squadra di ricerche. “Anche se ci riserviamo uno spazio per noi in cui continuiamo a dirci che è vivo”.
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