IL MITO DI ROMERO PROFETA DEL POPOLO. Negli appunti intimi del vescovo salvadoregno dichiarato martire dal Papa il senso vero della sua morte

Salvadoregni davanti alla Cattedrale Metropolitana, il 30 marzo 1980, durante il funerale di monsignor Romero. Foto Harry Mattison
Salvadoregni davanti alla Cattedrale Metropolitana, il 30 marzo 1980, durante il funerale di monsignor Romero. Foto Harry Mattison
La morte di Romero è stata interpretata a lungo con le parole apparse postume nella penna di un giornalista guatemalteco: «Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno». Così le hanno ripetute retoricamente per anni. Ma sono parole di Romero? Le ha veramente pronunciate l’arcivescovo assassinato in Salvador del quale è ormai prossima la beatificazione? Gli amici più stretti ne dubitavano. Lo storico Roberto Morozzo della Rocca – biografo dell’arcivescovo salvadoregno e incaricato della stesura della Positio super martyrio per la causa di canonizzazione – non ha dubbi in merito: sono apocrife. «Nella Positio» afferma Morozzo «lo si discute a sufficienza. Non sono altro che espressione di un mito ideologico di Romero profeta del popolo e messia a sfondo politico».
Romero, quello vero, non è stato l’eversivo agitatore di una teoria marxista. Romero ha pagato non una partecipazione politica in un contesto di guerra civile, ma una opzione totalmente evangelica. Anche i suoi interventi più estremi, quando dal pulpito faceva nomi e cognomi di chi opprimeva e massacrava il popolo nascevano dalla predilezione nei confronti dei poveri e dei deboli che è elemento ineliminabile della Tradizione della Chiesa, quella con T maiuscola. Il riconoscimento sancito dal Papa del suo martirio in odio della fede, del resto, ha spazzato via tutti i decennali pregiudizi di ordine politico sulla natura del suo agire. E si può dire che, in questo senso, ha chiuso definitivamente un’epoca protrattasi per lungo tempo anche nella Chiesa. Romero è stato un vero pastore che ha dato la vita per il suo gregge ed ha subito la morte per coerenza con la fede vissuta, con la dottrina, il magistero della Chiesa e la sua disposizione a dare la vita si è compiuta all’altare della mensa eucaristica.
«Come altri sacerdoti, nell’America latina di quegli anni, è stato vittima di un sistema oligarchico formato da persone che si professavano cattoliche e che vedevano in lui un nemico dell’ordine sociale occidentale e di quella che già Pio XI, nella Quadragesimo anno, chiama “dittatura economica”» ha affermato monsignor Vincenzo Paglia, postulatore della causa di Romero. Per conseguire interessi politico-economici, quindi, si è voluto far credere che la difesa concreta dei poveri fosse frutto di una teologia eretica e di dottrine comuniste. In questo modo intere popolazioni sono state oppresse e tanti uomini di Chiesa, in quegli anni, hanno sofferto fino al martirio. Per comprendere il senso della morte di Romero bisogna perciò ritornare alla persecuzione della Chiesa nel contesto storico salvadoregno. In un momento nel quale anche solo affermare che ci fosse una persecuzione non era affatto scontato. Basta rileggere quanto scriveva monsignor Alvarez Ramirez, vescovo di San Miguel, con discreti agganci in Vaticano, nel foglio della sua diocesi: «Non esiste una Chiesa perseguitata. Ci sono solo alcuni figli della Chiesa che, volendo servirla, hanno perso la strada e si sono posti fuori della legge». Ma la persecuzione era all’ordine del giorno. Al momento dell’elezione di Romero ad arcivescovo di San Salvador, già sei preti erano stati uccisi e molti altri maltrattati, minacciati, espulsi. Centinaia di catechisti erano stati torturati, assassinati, specie nelle zone rurali. In certe parrocchie era pericoloso andare a messa. Tanti venivano arrestati e fatti scomparire se i militari entrando nelle case trovavano una Bibbia. Perché questa persecuzione? «La Chiesa, coerente con la dottrina sociale, il Concilio Vaticano II, i documenti del magistero pontificio, di Medellin e Puebla, si preoccupava dei poveri, che in Salvador erano masse di gente senza lavoro o sottoccupata» spiega Morozzo della Rocca. L’economia si reggeva sulle redditizie colture d’esportazione gestite dall’oligarchia, ma caffè, cotone, canna da zucchero davano lavoro ai contadini senza terra solo per due o tre mesi l’anno. La classe dirigente oligarchica accusava la nuova sensibilità sociale dei cattolici, che aveva ricadute a livello sindacale, di sovversione e comunismo. I ricchi del passato avevano finanziato le costruzioni delle chiese, avevano mantenuto il clero, ed ora questo stesso clero non sosteneva più la piramide sociale su cui si reggeva il potere oligarchico, ai cui ordini stava la dittatura militare che reggeva il Salvador da mezzo secolo. «La Chiesa aveva tradito coloro che l’avevano mantenuta e incrementata. Da qui l’odio dell’oligarchia per clero e fedeli che mostravano sensibilità sociale e chiedevano un Paese più giusto. La crescita di una guerriglia castrista, con le sue pratiche violente, veniva pure imputata alla Chiesa per l’origine cattolica di molti guerriglieri, quando in realtà tutti in Salvador, allora, erano cattolici per origine e tradizione culturale» afferma lo storico. Romero, d’altra parte, anche con la guerriglia ebbe rapporti conflittuali. L’opzione rivoluzionaria era alternativa alla richiesta di giustizia e riforme dell’arcivescovo martire, che si ritrovò stritolato nella polarizzazione tra guerriglia e oligarchia. In questo difficilissimo contesto egli chiedeva conversione ai ricchi, a condividere i loro beni, pena il rischio incombente di una guerra civile, come poi ci sarà. E predicava chiedendo giustizia in nome della pace e del Vangelo. Sapeva che questo poteva costargli la vita.
La morte veniva annunciata a Romero ogni giorno attraverso minacce, insulti, attentati. «Chiedersi perché ammazzarono Romero è un po’ come chiedersi perché ammazzarono Gesù Cristo. L’assassinio di monsignor Romero è simile a quello di Gesù. Anche Gesù si disse che lo condannavano per cause politiche. Certamente il potere ha questo modo di difendersi, volendo occultare il suo peccato» affermava monsignor Gregorio Rosa Chávez, che fu uno dei suoi più stretti collaboratori.
Il senso cristiano della sua morte, l’arcivescovo lo affidò ai suoi appunti intimi in questi termini: «Pongo sotto la provvidenza amorosa del Cuore di Gesù tutta la mia vita e accetto con fede in Lui la mia morte, per quanto difficile sia. Né voglio darle una intenzione, come lo vorrei, per la pace del mio paese e per la fioritura della nostra Chiesa… perché il cuore di Cristo saprà darle il fine che vuole. Mi basta, per essere felice e fiducioso, il sapere con sicurezza che in Lui sono la mia vita e la mia morte… altri proseguiranno con maggiore saggezza e santità i lavori della Chiesa e della Patria». «Possiamo considerare queste parole – scritte un mese prima di essere di essere assassinato – come il testamento spirituale di monsignor Romero» afferma Morozzo. «Il quale non pensava a una morte eroica che facesse la storia, non voleva sfidare i nemici del popolo a ucciderlo per poi mostrarsi risorto nella rivoluzione, non concepiva il suo martirio come un simbolo di lotta a venire. Pensava invece alla sua morte secondo la tradizione della Chiesa, per la quale il martire non è una bandiera contro, non è un atto d’accusa verso il persecutore, ma un testimone della fede. Fede nella grazia divina che, come dice il salmo 62, vale più della vita».
Torna alla Home Page