COLOMBIA E I NEGOZIATI DI PACE. Perché un cessate il fuoco bilaterale non è auspicabile. L’analisi di un ex-guerrigliero del Salvador

Una colonna delle Farc
Una colonna delle Farc

Dopo il sequestro del generale Alzate (poi rilasciato, nota di T.d.A.) è tornato d’attualità il dibattito sull’opportunità di negoziare o meno durante il conflitto armato e, di conseguenza, se stabilire oppure no un cessate il fuoco e porre fine alle ostilità. L’ultima edizione della rivista colombiana SEMANA ha affrontato la questione, con diverse considerazioni e prospettive, alimentando ulteriormente il dibattito. È abbastanza comprensibile l’aspirazione per cui una negoziazione di pace possa avanzare in mezzo al silenzio dei fucili e delle bombe. Tuttavia il primo scoglio sorge se si spera che ciò accada in modo unilaterale: in questo caso, per conto della sola guerriglia.

Certo, considerazioni politiche e di legittimità (che tuttavia mostrano crepe importanti) impediscono di mettere sullo stesso piano la posizione della guerriglia e quella dello Stato, incluse le sue istituzioni politiche (abbastanza malmesse) e armate. Tuttavia non è realistico pensare che, nel quadro di un negoziato di pace, si stabiliscano misure unilaterali senza che vi sia un senso di “reciprocità”. L’unilaterità così stabilita è – si perdoni l’espressione – come dice il detto popolare: “La lotta di una tigre contro un asino legato” – qualcosa che perfino nella situazione di una guerriglia che ha perso prestigio e si trova osteggiata dall’opinione pubblica non può accadere perché presuppone il pensare più su un piano di “desideri” che non con la razionalità. Lo stesso vale per l’idea di “finirle militarmente” oppure offrire ai guerriglieri non una negoziazione, ma una resa.

Sul cessate il fuoco bilaterale, che non è una proposta della sola guerriglia, ma anche di altri settori politici e sociali (non sempre affezionati al pensiero politico delle FARC), occorre fare un ragionamento sensato non sulla sua utilità (che è fuori discussione), ma sulla sua praticabilità.

Ed il primo aspetto da considerare è la sua implicazione strategica, per cui il vantaggio acquisito dallo Stato (ed ormai insuperabile da parte della guerriglia) è fondamentale per cercare una fine del conflitto armato attraverso il negoziato. In questo sbagliano coloro che ritengono il negoziato il risultato di un “pareggio militare” e non di un chiarissimo vantaggio militare dello Stato. Non si tratta solo di timore che le FARC si “fortifichino” nel quadro di una tregua; la questione più importante è che al perdere l’iniziativa militare lo Stato perderebbe anche una posizione di forza all’interno dei negoziati, cosa cruciale e per nulla auspicabile che accada. Come nei casi di altre esperienze internazionali e come è stabilito nell’Accordo quadro per la finalizzazione del conflitto, con le FARC il momento del cessate il fuoco bilaterale si trova alla fine dei negoziati. Non all’inizio e nemmeno alla metà. Ma nei suoi aspetti tecnici e operativi, un cessate il fuoco bilaterale non è praticabile adesso di fronte ai tempi e ai bisogni politici del negoziato. Si tratterebbe di complessi sforzi che richiederebbero – tra altre condizioni di base – diversi punti in cui concentrare le truppe guerrigliere, ampli e dettagliati schemi di appoggio logistico e di sicurezza, oltre che di un complesso ed efficace meccanismo di verifica.

Anche se sono state le FARC a proporre questa soluzione non è difficile immaginare che la loro idea di “cessate il fuoco” sia una specie di status quo grazie al quale le due parti possano mantenere le attuali posizioni e aree di controllo. La cosa è inaccettabile, sia dal punto di vista politico che da quello militare. E con un argomento in più: come si garantisce e verifica quella condizione in mezzo ad un territorio vasto e complesso come quello colombiano, con tanti attori legali ed illegali nel mezzo?  Supponendo che si raggiunga un accordo ragionevole sulla concentrazione dei diversi fronti delle FARC in sei o sette punti, quanto tempo ci vorrebbe per arrivare effettivamente ad un  cessate il fuoco? Sicuramente non meno di un anno, che quindi è più o meno il tempo prevedibile per mettere fine al negoziato.

Ma proviamo anche ad immaginare le discussioni su chi ha compiuto o no quello sparo o ha commesso o no quel fatto in violazione del cessate il fuoco. Come direbbe il sacrificato Jesús Antonio Bejarano (l’economista ed esperto di risoluzione di conflitti, attivo partecipante nei negoziati con i guerriglieri ed ucciso a Bogotà nel 1999, nota di T.d.A.), “una tregua è talmente facile da rompere che può accadere per lo sparo di un ubriaco”. Ne seguirebbe quindi nient’altro che discussioni sfiancanti, che riporterebbero l’attenzione sulla gestione o sul ristabilimento del cessate il fuoco, e sviandola dalla cosa davvero importante: l’avanzamento dell’agenda di negoziazione, nonostante i costi umani e materiali che purtroppo potrebbero ancora esserci.

Invece, ciò che servirebbe è quella che è stata battezzata la “de- escalation” del conflitto a partire da decisioni reciproche – come l’uso proporzionale della forza stabilito nel Diritto Internazionale Umanitario o un accordo sui Diritti Umani (come è avvenuto in Salvador) – ma anche unilaterali, che per il caso delle FARC passano con urgenza attraverso il rispetto della popolazione civile, il non reclutare minori e svincolarli dalle loro fila, sminare le zone sensibili di uso civile e dar conto delle persone in loro potere (ancora sequestrate), scomparse e/o morte a causa della loro azione.

Ma più che un cessate il fuoco, ciò che questo processo davvero richiede è maggiori e migliori risultati… nel minor tempo possibile!

*Ex combattente del M19 e del FMLN (El Salvador)

Traduzione dallo spagnolo di Andrea Bonzo

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