NEGAZIONISTA PENTITO. Ex ambasciatore di El Salvador negli Stati Uniti chiede perdono per aver negato un massacro di civili

I resti esumati e l’unica sopravvissuta, Rufina Amaya
I resti esumati e l’unica sopravvissuta, Rufina Amaya

Ernesto Rivas Gallont è un affermato imprenditore del settore del trasporto marittimo che dedica tempo e soldi ad aiutare gli altri con la Croce Rossa del suo paese e varie altre istituzioni che si occupano d’invalidi e handicappati. In passato, invece, è stato ambasciatore negli Stati Uniti per tutto il periodo della guerra civile in El Salvador. Di cose ne sa, ma a volte, pur sapendole, o sospettandole, ha preferito tacere e riferire la verità ufficiale, che le negava. È stato così con il massacro di El Mozote, uno degli episodi più efferati occorsi nel piccolo paese centroamericano, quando, nel dicembre del 1981 i militari hanno assassinato un migliaio di persone inermi in una remota località con quel nome. Rivas Gallont già allora sospettava che qualcosa di torbido fosse accaduto. Ma ha continuato a sostenere la versione del suo governo, che ha fatto di tutto perché la verità non si sapesse.

Anche quando il The Washington Post e The New York scrissero già nel dicembre del 1981, in base a investigazioni in loco, che gli autori dell’eccidio nei due poveri municipi di Maanguera e Arambale, nella provincia di Morazan ad un centinaio di chilometri da San Salvador, erano militari dell’esercito salvadoregno e di una brigata anti insurrezione che eseguiva l’operazione denominata “terra bruciata”.

Adesso, 33 anni dopo quel massacro, uno dei peggiori nella storia moderna di El Salvador, Rivas Gallont chiede perdono e dice finalmente la verità. “L’ho negato pubblicamente, seguendo le istruzioni del governo che rappresentavo” scrive sul suo blog, confessando di aver sospettato quasi subito “che la storia reale fosse diversa” da quella raccontata dai superiori e raccolta come tale da buona parte della stampa locale. In un sussulto tardivo Rivas Gallont riconosce che “avrei dovuto ribellarmi e denunciare la realtà. Non l’ho fatto e chiedo perdono per questo”.

Agli stessi giornalisti dei due giornali americani che avevano scoperchiato la vicenda pubblicando la testimonianza dell’unica sopravvissuta Rufina Amaya, l’allora ambasciatore in carica aveva dichiarato di “respingere decisamente l’affermazione che l’esercito salvadoregno aveva ucciso donne e bambini. Questo modo di agire” aveva aggiunto, “non si accorda con la filosofia delle forze armate”.

L’evidenza del massacro divenne di dominio pubblico pochi anni dopo. Ma le denunce avrebbero avvantaggiato i guerriglieri del Fronte Farabundo Marti e l’episodio continuò a essere negato, o quantomeno ridimensionato. Ma le ossa dei morti hanno potuto più della reticenza dei vivi. I resti sono stati in buona parte riesumati e molte vittime identificate con perizie sofisticate, la Corte interamericana per i Diritti Umani ha condannato il governo di El Salvador per occultamento il 10 dicembre del 2012, nel mese di gennaio di quello stesso anno il presidente in carica Mauricio Funes ha riconosciuto le responsabilità dello stato nelle gravi violazioni commesse dall’esercito durante l’epoca della guerra civile.

Adesso, a poco più di un mese dal 33 anniversario dall’eccidio durato quattro giorni, dal 9 al 13 dicembre del 1981, arrivano anche il pentimento e le ammissioni di un alto funzionario del governo, che negli anni fatidici della mattanza era presieduto dal democristiano Napoleon Duarte. Ernesto Rivas Gallont per giunta si spinge ancora oltre, affermando che quello di negare i crimini militari fu parte di “una prassi acquisita” nei governi che si sono succeduti. “Questa non è stata l’unica atrocità commessa dall’esercito salvadoregno a essere negata ufficialmente” ha esternato l’ex ambasciatore. “È stata una routine che è prevalsa, passando dall’assassinio delle quattro religiose statunitensi nel 1980, fino al massacro dei sacerdote gesuiti, della domestica e di sua figlia nel 1989”.

Esattamente due giorni or sono, il 17 novembre di 25 anni fa.

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