PERDONARE MA CHI? Il processo per il massacro dei gesuiti di El Salvador continua in Spagna. Gli esecutori si conoscono, i mandanti no

Gli indumenti dei sacerdoti assassinati conservati nel Museo dell’Università
Gli indumenti dei sacerdoti assassinati conservati nel Museo dell’Università

La giustizia spagnola potrà proseguire la causa riguardante l’assassino dei sei sacerdoti gesuiti e delle loro due collaboratrici domestiche avvenuto in Salvador nel Novembre del 1989 per mano di militari durante la guerra civile (1979-1992). Lo ha stabilito il 3 ottobre l’”Audiencia Nacional”, massimo organismo spagnolo in cause di questo tipo, decidendo su un  ricorso del “Centro per la Giustizia e Responsabilità” (CJA), la stessa associazione statunitense che aveva fatto riaprire il caso nel 2009, insieme all’iberica “Asociación Pro Derechos Humanos”.

Il processo aveva subito una battuta d’arresto nel marzo scorso, quando una riforma della giustizia voluta del governo di Rajoy aveva cercato di temperare la portata del principio di giurisdizione universale, vigente nella legge spagnola sin dal 1985. Secondo tale principio, nei casi di crimini contro l’umanità (come era considerato l’assassinio dei gesuiti) i giudici iberici potevano superare il limite delle frontiere geografiche o della nazionalità delle vittime. Su quelle basi legali in Spagna sono stati aperti, tra gli altri, processi riguardanti le torture a Guantanámo, il genocidio in Ruanda, la repressione cinese in Tibet, iniziative che seppur animate dalle migliori intenzioni, hanno talvolta causato al paese iberico qualche grattacapo diplomatico. Dopo la riforma il caso dei gesuiti – da crimine contro l’umanità – venne rubricato ad atto di terrorismo. E per questo potevano essere parti soltanto le cinque vittime con passaporto spagnolo. Ora però, grazie alla decisione del tribunale, torna tutto come prima: e oltre che per i cinque religiosi iberici, potrà esserci giustizia anche per le tre vittime salvadoregne (un sesto sacerdote, la cuoca e la figlia sedicenne).

La decisione è stata accolta favorevolmente in Salvador. Si tratta dell’unica possibilità di dare la parola definitiva ai giudici, visto che nel piccolo paese centroamericano i presunti responsabili hanno potuto beneficiare fin dal 1993 di una legge generale di amnistia. Anche la Chiesa ha plaudito alla decisione della corte spagnola. “Significa che il caso continuerà là, ed è una buona cosa”, ha detto il vescovo ausiliario di San Salvador, Rosa Chávez, in una conferenza stampa seguita alla messa domenicale. Il prelato ha ricordato come i familiari dei cinque gesuiti spagnoli abbiano “deciso di continuare il processo in Spagna” e ha sottolineato come i religiosi del Salvador siano “aperti a che si faccia giustizia” e a concedere “il perdono ai criminali che commisero quell’assassinio”, a condizione, tuttavia, che “si conosca cosa accadde e sia ufficialmente riconosciuto dal governo”.

Con parole simili l’Università Centroamericana del Salvador (UCA), dove i gesuiti insegnavano (uno di loro, padre Ignacio Ellacuría, era il rettore), ha fatto sapere per mezzo direttore dell’Istituto per i diritti umani dell’università, Luis Monterrosa, la propria soddisfazione. “La UCA – ed anche la gente – è disposta a perdonare, ma dobbiamo sapere chi dovremo perdonare di fronte al paese. Deve esserci accesso alla verità”, ha dichiarato ad AP. Ha aggiunto, inoltre, che è fondamentale “garantire che casi come questo non si ripetano”. “Abbiamo bisogno che la società abbia la garanzia che mai più l’esercito, ne nessun’altra forza politico-militare, si ponga al di sopra dello stato di diritto”, ha affermato.

La UCA considera chiuso il caso contro i nove esecutori materiali (sette assolti, mentre gli unici due condannati sono stati amnistiati poco tempo dopo), ma continua a chiedere giustizia per quanto riguarda i mandanti. Nel 1993 un rapporto della Commissione per la Verità delle Nazioni Unite, diffusa subito dopo l’amnistia, segnalava che nel 1989 l’ordine di uccidere il sacerdote Ignacio Ellacuría senza lasciare testimoni era stato dato durante una riunione degli alti ufficiali militari. Ma – decisione del tribunale a parte – la partita è ancora lunga e piena di incognite, vista soprattutto la reticenza del governo salvadoregno a collaborare con la giustizia. Già nel 2011 il governo di Mauricio Funes si rifiutò di far eseguire un mandato di arresto internazionale emesso dall’Interpol. Nel 2012, invece, giunse la decisione della Corte suprema salvadoregna di non concedere l’estradizione in Spagna dei presunti colpevoli. Scomparvero misteriosamente anche alcuni importanti documenti necessari per l’eventuale estradizione a Madrid dei militari sotto accusa. I militari imputati sono 20. Tra questi, due si trovano negli USA, uno è deceduto, mentre un altro, il generale Zepeda, è candidato a deputato alle prossime elezioni del 2015.

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