IL “MIRACOLO” DI ROMERO. Lo racconta madre Lucita, scomparsa alcuni giorni fa. Assistette all’assassinio dell’arcivescovo il 24 marzo 1980

Madre Lucita, a 87 anni, nella Casa per bambini Divina Providencia. Foto Roberto Valencia
Madre Lucita, a 87 anni, nella Casa per bambini Divina Providencia. Foto Roberto Valencia
Maria de la Luz Cueva Santana, meglio conosciuta come madre Lucita, aveva diretto l’Ospedale Divina Provvidenza, dove Oscar Romero abitò negli ultimi due anni della sua vita. Era l’ ultima delle suore carmelitane che avevano vissuto e lavorato a fianco dell’arcivescovo assassinato. L’ ultima intervista a madre Lucita risale a quattro anni fa. Alla domanda del giornalista del quotidiano salvadoregno El Faro, Manuel Valencia, se ritenesse Romero santo, rispose: “Non ho dubbi”. E perché ne è così convinta?, insistette il giornalista. “Perché l’ho conosciuto [...] Era un uomo di una fede e di una preghiera molto profonde. Tutto quello che faceva prima lo consultava con Dio, in ginocchio, affinché gli desse saggezza e gli dicesse cosa avrebbe dovuto fare. Credo che Monsignore sia giunto a tante persone per la sua semplicità. Non amava che si occupassero della sua persona né che parlassero di lui, né che lo elogiassero. Sta succedendo – disse sorridendo – proprio quello che a lui non piaceva, cioè che sta diventando noto in tutto il mondo”. L’intervistatore, da buon giornalista, ebbe la prontezza di chiederle se credeva che a Romero sarebbe piaciuta la canonizzazione. “No, per la sua umiltà non gli sarebbe piaciuta, ma nessuno immaginava la eco che avrebbe avuto la sua morte. Così vanno le cose. Dio si incarica di celebrare gli umili”.
Il punto di vista di madre Lucita è tra i più autorevoli quando si parla di Romero. Lo conobbe infatti già nel lontano 1966. Le loro vite sono state profondamente intrecciate. Un paio di anni prima era arrivata in Salvador dal Messico, suo paese natale, con le  suore Carmelitane Missionarie di Santa Teresa, per assistere i malati di cancro nell’ospedale San Rafael, a Santa Tecla, El Salvador.
Nell’intervista di Valencia (diventata poi un capitolo del libro “Hablan de Monseñor Romero”, editato dalla “Fundación Monseñor Romero”) madre Lucita ripercorreva le tappe della sua vita. Ricordava come non fosse soddisfatta del lavoro passivo a cui erano destinate le suore nell’ospedale, così “siccome ero un po’ ribelle e a San Rafael non c’era libertà, mi proposi di creare un luogo in cui assisterli con maggiore dignità”. Agli inizi del 1966 iniziò la costruzione di quello che sarebbe diventato l’Ospedale della Divina Provvidenza. È qui che sorella Luz diventa madre Lucita. Ed è in questa occasione che conobbe monsignor Romero.
Storie intrecciate, si diceva. Non a caso, lo stesso Ospedale voluto da Madre Lucita fu l’ultima casa in cui abitò l’ arcivescovo. Era il 17 agosto del 1977, giorno del suo compleanno, quando lasciò la sua piccola stanza, attigua alla cappella della Chiesa. La nuova sistemazione – tre camere senza orpelli – fu un regalo delle suore e dei suoi amici. Madre Lucita raccontò come era andata la vicenda: “Tra tutte, decidemmo di costruirgli quella piccola casa, perché quando riceveva visite lo trovavano in quell’angusto stanzino. Lo facemmo senza dirgli niente. Fu una sorpresa”.
Entrambi di forte personalità, il loro fu un rapporto di amicizia e rispetto reciproco. Quello di monsignor Romero era un carattere a due facce. Da un lato, burbero e difficile. Dall’altro, di un altruismo ed una bontà infiniti, che madre Lucita esemplificava accennando a tutte le ore che trascorreva in compagnia delle persone ricoverate nell’Ospedale, perlopiù malati terminali di cancro. Per tutti aveva una parola di incoraggiamento. Gli piaceva ricorrere al paragone tra la loro situazione e quella di Gesù Cristo crocefisso. Il letto era come la croce, diceva, prima di chiedere loro di offrire quel dolore per la pace del mondo o per la conversione dei peccati.
Al giornalista che le faceva osservare che Romero si arrabbiava come chiunque altro, suor Lucita ricordava che anche Cristo, che era allo stesso tempo Dio e uomo, ha avuto i suoi momenti di arrabbiatura, come quando gettò le cose dei mercanti, li ammonì e li sgridò. Romero non era uomo che amava dare confidenza. Madre Lucita ricordava con un sorriso la volta in cui, brindando per celebrare la ripresa delle trasmissioni della radio dell’ arcivescovado (“creatura” a cui Romero teneva particolarmente) le scappò un troppo confidenziale: “Salute, Oscarito!”. Le suore si aspettarono una reazione scontrosa, ma quella volta non fu così. Disse amabilmente che sua mamma lo chiamava nello stesso modo, Oscarito.
Era il 1979, poco prima della morte. Alla fine dello stesso anno, Romero ricevette la notizia che l’Università Cattolica di Lovanio gli aveva conferito un dottorato honoris causa. La cerimonia era prevista per il febbraio dell’anno nuovo. Intanto, El Salvador era precipitato sull’orlo della guerra civile: all’inizio del 1980 c’era stato un massacro durante una manifestazione oceanica. “Noi gli dicemmo di andare”, di fare il viaggio, di cambiare aria, ricordava madre Lucita nell’intervista. “Pensavamo avesse bisogno di un po’ di riposo, di vedere altre cose invece della repressione che si stava dando nel Salvador”. Partì dunque, pur avendo deciso di ridurre al minimo la sua permanenza in Europa. Ebbe il tempo di incontrare Giovanni Paolo II. Poi, andò in Belgio a ritirare il prestigioso riconoscimento, pronunciando un discorso che secondo molti studiosi racchiude la sua visione sul ruolo della Chiesa in società povere, e che letto oggi suona come il suo testamento spirituale.
Era il febbraio del 1980. Lo sparo che lo avrebbe ucciso raggiunse Romero poco più di un mese dopo. Erano le sei e mezza del 24 marzo 1980, ed il monsignore stava celebrando una delle tante messe che teneva nella cappella dell’ospedale sin dagli anni ’60.
Madre Lucita fu testimone oculare del fatto. C’ era poca gente, quel giorno, e lei era seduta a circa dieci metri dall’altare. Ricorda lo sparo, “come se fosse esplosa una bomba”. Monsignor Romero stava parlando: “Uniamoci dunque, intimamente in fede e speranza a questo momento di preghiera per Doña Sarita e per noi…”. Il proiettile lo fece cadere come fulminato. Per un attimo si afferrò alla tovaglia dell’altare, rovesciando il calice e le ostie. Il corpo rimase riverso ai piedi del cristo crocefisso. Fu il caos, i presenti fuggirono a nascondersi. Poi, Madre Lucita e altre sorelle si avvicinarono: “Non provai paura. Provai indignazione. La prima cosa che feci fu cercare di identificare l’assassino tra i presenti”. Qualcuno gridò: “È stato versato il sangue di Cristo!”. Venne chiamato un medico. Tutto fu inutile.
Ancora oggi ci sono dubbi circa la dinamica degli eventi. Madre Lucita era convinta che il tiratore si trovasse dentro la cappella, che avesse ascoltato tutta la messa. Altri assicurano invece che fosse fuori o su un furgone Volkswagen. In ogni caso, non si è mai saputo con certezza chi sparò. Certo è che quel momento e quello sparo formano indelebilmente parte della storia del Salvador.
L’ intervista a madre Lucita si concludeva con un “miracolo”. Raccontò di come monsignor Romero gli apparve un giorno del 1983, poco prima dell’inaugurazione della Casa per Bambini, altra opera fortemente voluta dalla suora e alla cui costruzione aveva partecipato lo stesso Romero donando i 10 mila dollari del dottorato honoris causa. “Non è stato un sogno” raccontò al giornalista Valencia. “Dapprima lo vidi dalla finestra, camminando. Lo vidi naturale, come in quella foto in cui è in campagna, con la sottana bianca. Poi gli parlai, e quando gli raccontai che non avevamo più fondi per completare l’opera mi disse, col suo stesso tono di voce: madre, abbia fede, che verrà una persona e risolverà la cosa”. Pochi giorni dopo arrivò una persona con un assegno “provvidenziale”, nel vero senso della parola. Madre Lucita è sicura che monsignore abbia interceduto.
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